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Qual è la percentuale di successo di un trapianto di fegato?

Oltre ad una cirrosi Hcv+ in sospetta emocromatosi, sto facendo una terapia di Deferoxamina mesilato per troppo ferro, se facessi un trapianto di fegato, quante possibilità ci sono che abbia una buona riuscita?

Risposta

La sopravvivenza dei pazienti sottoposti a trapianto epatico è progressivamente migliorata a partire dal 1983. La sopravvivenza ad un anno è aumentata da circa il 70% dei primi anni '80, all'80-85% nella metà degli anni '90; attualmente, la sopravvivenza a 5 anni è di circa il 60%.

Un'importante osservazione è la relazione tra situazione pretrapianto e risultati del trapianto stesso; i pazienti che vengono sottoposti a trapianto epatico in buone condizioni generali (per esempio, ancora occupati o solo parzialmente disabili) hanno infatti una sopravvivenza a 1 anno dell'85%. Al contrario, i pazienti con una situazione generale tale da avere richiesto un continuo ricovero ospedaliero pretrapianto hanno una sopravvivenza a 1 anno del 70%, mentre quelli in condizioni generali così gravi da avere richiesto il ricovero in unità di terapia intensiva hanno una sopravvivenza ad 1 anno di circa il 50%.

Per i pazienti che non rientrano in nessun gruppo ad alto rischio, la sopravvivenza registrata a 1 e 4 anni è rispettivamente dell'85 e 80%; per contro, nei pazienti ad alto rischio, cioè quelli sottoposti a trapianto per neoplasia, epatite fulminante o epatite B, di età superiore a 65 anni, con insufficienza renale concomitante, sottoposti a respirazione artificiale, con trombosi della vena porta, pregresso shunt porto-cavale o interventi multipli in ipocondrio destro, la sopravvivenza a 1 anno scende al 65% e quella a 4 anni a circa il 50%.

La sopravvivenza dopo ritrapianto per insufficienza primitiva d'organo è circa il 50%. Le cause di insufficienza del trapianto variano con il tempo: entro i primi 3 mesi l'insufficienza deriva soprattutto da complicanze tecniche, infezioni postoperatorie ed emorragia, mentre dopo i primi 3 mesi è dovuta a episodi infettivi, rigetto o recidiva della malattia (neoplasia o epatite virale).

Non sono state descritte recidive di epatiti croniche autoimmuni né di colangiti sclerosanti primitive. Vi sono state segnalazioni di recidive di cirrosi biliare primitiva dopo trapianto epatico; i quadri istologici della cirrosi biliare primitiva e del rigetto acuto, tuttavia, sono virtualmente indistinguibili e si osservano con la stessa frequenza in pazienti con cirrosi biliare primitiva e in pazienti sottoposti a trapianto epatico per altri motivi.

Patologie ereditarie come la malattia di Wilson e il deficit di al-antitripsina non hanno dato luogo a recidiva dopo il trapianto; recidiva di un alterato metabolismo del ferro è stata invece osservata in alcuni pazienti con emocromatosi.

La trombosi delle vene sovraepatiche (sindrome di Budd-Chiari) può recidivare; questo rischio viene ridotto trattando la malattia linfoproliferativa concomitante e mediante terapia anticoagulante.

Il colangiocarcinoma recidiva quasi sempre; oggi solo pochi centri, pertanto, sottopongono a trapianto i pazienti affetti da questo tipo di tumore.

Nei pazienti con carcinoma epatocellulare, la recidiva tumorale nel fegato è frequente dopo circa 1 anno, anche se risultati migliori sono stati ottenuti in pazienti con lesioni non resecabili singole inferiori a 5 cm o con 3 lesioni o meno tutte inferiori a 3 cm.

Si stanno conducendo studi clinici per valutare il beneficio di una chemioterapia aggiuntiva.

L'epatite A può recidivare dopo il trapianto per epatite fulminante da virus A, ma questa reinfezione acuta non ha conseguenze cliniche gravi.

Nell'epatite B fulminante, la ricorrenza non è la regola; l'epatite B, tuttavia, recidiva quasi sempre dopo trapianto per epatite cronica terminale da HBV. Attuando una terapia immunosoppressiva sufficiente a prevenire il rigetto, i livelli di viremia dell'epatite B aumentano in modo marcato, indipendentemente dai livelli pretrapianto; la maggioranza dei pazienti sottoposti a trapianto per epatite cronica B diventa portatrice di alti livelli di HBV senza danno epatico, anche se, dopo il trapianto, in alcuni pazienti si sviluppano rapidamente un grave danno epatico, un'epatite cronica attiva o addirittura un'epatite fulminante.

L'epatite colestatica fibrosante è un quadro istologico associato a danno epatico rapidamente progressivo che si osserva in circa il 10% dei pazienti sottoposti a trapianto per epatite B; questi pazienti hanno un'elevata iperbilirubinemia, un sostanziale allungamento del tempo di protrombina (ambedue questi incrementi sproporzionati rispetto alla relativamente modesta ipertransaminasemia) e insufficienza epatica rapidamente progressiva.

È stato ipotizzato che questa lesione rappresenti un soffocamento dell'epatocita da parte di un'enorme quantità di proteine dell'HBV. Nei pazienti che vengono sottoposti a trapianto epatico per epatite B sono state più frequentemente descritte complicanze quali sepsi e pancreatite. Il rischio di recidiva di epatite B è circa del 20% maggiore nei pazienti con marcatori di replicazione virale prima del trapianto (HBeAg e DNA dell'HBV); l'epatite B, tuttavia, recidiva anche nel 60% dei pazienti senza marcatori di replicazione virale prima del trapianto, probabilmente perché i farmaci immunosoppressori aumentano la replicazione dell'HBV.

La maggior parte dei centri non esegue il trapianto epatico nei pazienti con epatite B, a meno che non venga effettuata un'immunoprofilassi con immunoglobuline anti-HBV (HBIG).

Si sono dimostrate inefficaci sia la vaccinazione anti-HBV pretrapianto e la terapia pre o post-trapianto con Interferone, sia la profilassi a breve termine (di durata uguale o inferiore a 2 mesi) con HBIG.

L'analisi retrospettiva dei dati raccolti in centinaia di pazienti seguiti per 3 anni dopo il trapianto ha invece dimostrato che la profilassi a lungo termine con HBIG (di durata uguale o superiore a 6 mesi) riduce il rischio di reinfezione da HBV dal 75 al 35% e la mortalità dal 50 al 20%. L'immunoprofilassi passiva con HBIG va iniziata durante la fase anepatica dell'intervento chirurgico, ripetuta giornalmente nei primi 6 giorni postintervento e quindi continuata con somministrazioni a intervalli regolari ogni 4-6 settimane o, alternativamente, quando i livelli di anti-HBs scendono sotto la soglia delle 100 mUl/ml.

Con tutta probabilità, la somministrazione di HBIG deve essere proseguita per un tempo indefinito; in alcuni rari casi, sono state descritte recidive di infezione B durante la somministrazione delle immunoglobuline. Questo approccio è molto costoso (circa 20.000 dollari/anno) e richiede la somministrazione endovenosa di preparati di immunoglobuline realizzati per l'iniezione intramuscolare. Questo approccio è ora praticamente utilizzato in ogni centro, anche se non è stato ancora ufficialmente approvato dalla Food and Drug Administation degli Stati Uniti; sono in corso studi clinici con preparati di HBIG prodotti specificatamente per la somministrazione endovenosa.

Un approccio alternativo promettente, ma ancora in fase sperimentale, nella profilassi dei pazienti con epatite cronica B sottoposti a trapianto epatico è l'uso di analoghi nucleosidici come il Famciclovir e la Lamivudina. Dati preliminari suggeriscono che questi farmaci prevengono la recidiva dell'infezione da HBV se somministrati in fase pretrapianto, controllano le recidive di epatite B dopo il trapianto (anche nei pazienti che presentano recidive durante la profilassi con HBIG) e bloccano il decorso altrimenti fatale dell'epatite colestatica.

I pazienti che vengono sottoposti a trapianto epatico per epatite cronica B e D hanno una sopravvivenza migliore di quelli sottoposti a trapianto solo per epatite cronica B. L'epatite C recidiva praticamente in tutti i pazienti dopo il trapianto epatico, come risulta dall'utilizzo di marcatori virali sufficientemente sensibili. Nei pazienti con recidiva post-trapianto di epatite C, si osservano sia lesioni epatiche acute che lesioni croniche e nel 50% dei casi l'epatite è di grado moderato o grave all'esame istologico. Nell'altra metà dei pazienti, il danno epatico è invece lieve o assente e le conseguenze cliniche della recidiva di epatite C sono minime nei primi 5 anni dopo il trapianto.

Circa il 5-10% dei pazienti ha una recidiva di epatite C sufficientemente grave da richiedere una terapia antivirale con Interferone (che può sopprimere il danno epatico prodotto dall'HCV in circa il 50% dei pazienti, ma raramente è in grado di ottenere una risposta protratta); un piccolo numero di pazienti muore per il danno epatico prodotto dall'HCV e in rari casi è stata descritta una sindrome simile all'epatite colestatica fibrosante.

Poiché i pazienti che hanno ripetuti episodi di rigetto ricevono una terapia immunosoppressiva a dosi maggiori e poiché la terapia immunosoppressiva aumenta la replicazione dell'HCV, i pazienti con episodi di rigetto gravi o multipli hanno maggiori probabilità di avere una recidiva precoce di epatite C dopo il trapianto. Inoltre, i pazienti con genotipo Ib hanno maggiori probabilità di recidiva di epatite da HCV e più precocemente rispetto a pazienti con altri genotipi.

D'altro canto, nella maggior parte dei pazienti, l'impatto della recidiva di infezione da HCV sulla sopravvivenza dell'organo e del paziente è minima, almeno nei primi 5 anni dopo il trapianto.

Nei pazienti sottoposti a trapianto di fegato per cirrosi alcolica in fase terminale vi è il rischio di una ripresa del consumo di alcolici dopo il trapianto, cioè una potenziale sorgente di recidiva di danno epatico da alcol. Attualmente, l'epatopatia alcolica è una delle più comuni indicazioni al trapianto epatico e la maggior parte dei centri seleziona i candidati molto attentamente sulla base di fattori predittivi di astinenza prolungata.

Una ripresa dell'assunzione di alcolici è più probabile nei pazienti in cui l'astinenza pretrapianto dall'alcol sia durata meno di 6 mesi. Nella maggior parte dei pazienti che sopravvivono nei primi mesi dopo il trapianto e sfuggono al rigetto cronico o a infezioni non controllabili, si ottiene una riabilitazione completa.

Problemi psicosociali interferiscono con l'accettazione della terapia medica solo in pochi pazienti e la maggior parte di questi si adatta alla terapia immunosoppressiva che deve essere continuata per tutta la vita.

Secondo uno studio, l'85% dei pazienti sopravvissuti al trapianto è tornato a svolgere attività remunerative. Inoltre, alcune donne hanno concepito e condotto a termine una gravidanza dopo il trapianto epatico senza conseguenze per i loro bambini.

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Risposta a cura di
Dr. Giuseppe Di Trapani Medico Chirurgo
Dr. Giuseppe Di Trapani
chirurgo generale
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