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I lutti in pandemia: perché è tanto difficile reagire

Redazione

Ultimo aggiornamento – 15 Giugno, 2022

lutto

Tratto dall'ebook "NUOVO CORONAVIRUS E RESILIENZA, Strategie contro un nemico invisibile". A cura di Luciano Peirone, Prefazione di Santo Di Nuovo,

Testo di Laura Borgialli, Psicologa Psicoterapeuta, libera professionista. Vicepresidente dell’associazione scientifico-culturale di coterapia - Accordo e cofondatrice del Centro Bionomia di Moncalieri (TO), sede locale ICSAT (Italian Committee for the  Study of Autogenic Training, Therapy and Psychotherapy).


Gli psicoterapeuti, in quanto professionisti della salute, hanno potuto continuare a lavorare e a seguire i propri pazienti durante la pandemia di CoViD-19 e la conseguente quarantena che ha coinvolto tutta la popolazione.

La pratica clinica, e non solo, mi ha abituata al contatto con la sofferenza psichica e con i suoi temi tra i quali, sicuramente, la morte, ma raramente come in questo periodo mi sono commossa accogliendo i racconti e il dolore dei pazienti che hanno perso i loro cari. Nel corso di questa pandemia e del conseguente lockdown è successo qualcosa di diverso che ha reso l’accettazione e l’elaborazione dei lutti molto più dolorosa e complessa: la morte in solitudine. Solitudine del morente in ospedale al quale non possono essere permesse visite da parte di nessuno, solitudine di familiari e amici lasciati soli nel dolore della perdita, senza alcuna possibilità di condividere il loro dolore e in totale assenza di un rito funebre.

L’abolizione di ogni forma di rito che sancisca gli eventi drammatici e accompagni chi ne è colpito non è frequente nella storia dell’uomo. Non è stata condizione tipica in tempo di guerra, non succede nelle catastrofi naturali, e nemmeno in casi di stragi e attacchi terroristici. Nella pandemia in corso la necessità di contenere i contagi evitando assembramenti e mantenendo la distanza fisica fra le persone ha determinato la soppressione di qualsiasi possibilità di celebrazione di funerali, non importa se con rito religioso o laico, costringendo all’isolamento

Questa privazione potrà avere conseguenze psicologiche nel tempo?

(...) Il rito è presente in tutte le culture, non è esclusivo del sacro né del profano e, nelle sue varie manifestazioni, sancisce dalla nascita alla morte tutti i momenti cruciali della nostra esistenza. Il rito ci aiuta a crescere e, nel bene e nel male, ci impedisce di negare l’accaduto. Diventa più difficile tornare indietro dopo la celebrazione di un rito di passaggio, indifferentemente da ciò che con questo viene sancito, il passaggio da un’età ad un’altra, un matrimonio o un funerale.Tra le tante funzioni un rito ha infatti anche quella di stemperare la resistenza al cambiamento a favore di forze vitali e trasformative.

Il rito: funzioni preventive e funzioni terapeutiche

Dal punto di vista della prevenzione un rito funebre può avere per la psiche il ruolo che in psicoterapia hanno le regole del setting: l’ora noni nfinita di una seduta che si svolge in un dato luogo e condizioni, e che puntualmente termina, protegge e struttura l’Io del paziente (e dello psicoterapeuta) nel momento in cui irrompono contenuti dall’inconscio o forti emozioni che potrebbero sovrastare. Nello stesso modo i funerali, che come tutti i riti avvengono in un luogo e in un tempo ben determinati, offrono spazio ma nel contempo contenimento ai momenti acuti della commozione. Creano in un certo senso un cerchio magico, non così diverso simbolicamente da quello di balene e delfini che si radunano in mare stringendosi in una danza attorno al corpo del defunto e ai suoi più stretti congiunti, generando un’energia rassicurante e protettiva. 

Il cerchio magico impedisce l’irruzione dall’esterno e dall’interno di forze disorganizzanti e potenzialmente patogene.

Il termine “rito” deriva dal latino ritus, l’ordine stabilito, ma anche più anticamente dalla radice indo-europea “ri”, che significa “scorrere”, a intendere perciò uno scorrere ordinato di qualcosa come in “ritmo” e “rima” (scorrere della musica o della parola) (Walter Orrù, 2007). Secondo Claudio Widmann “universalmente, il rito organizza la stabilità”, “il rito possiede una struttura archetipica e in quanto archetipo è categoria strutturante della vita” (Widmann, 2007).

Favorendo un senso di continuità ogni rito funebre rinsalda anche il senso di appartenenza alla comunità e la solidarietà che ne consegue, nonché la stabilità sociale. Consente inoltre di onorare la persona defunta attribuendole valore, e ciò è di conforto per chi questa persona l’ha amata.

Il funerale è il momento dedicato al ricordo condiviso e alla ricostruzione dell’identità del deceduto alla quale tutti i partecipanti contribuiscono, ricordandone le caratteristiche di personalità, il legame che li univa e i momenti salienti della sua vita. A questo facilmente si accompagna una benefica e progettuale riflessione sul percorso individuativo che chi è vivo sta ancora compiendo. Ogni lutto significativo e la coscienza della morte mettono a contatto con il limite, costituendo una prova molto salutare per contrastare narcisistici sensi di onnipotenza e la sensazione che il tempo sia una risorsa illimitata. In questo senso la morte può diventare un’esperienza potenzialmente maturativa e creativa.

Affinché tutto questo avvenga bisogna però che i lutti possano essere elaborati. Bisogna che le persone che si trovano a dover affrontare questo difficile momento dell’esistenza siano riconosciute, accolte, accompagnate e comprese. Non vi è dubbio che i funerali o una qualche forma di rito aiutino in questo processo evitando che il dolore si trasformi in shock.

Paradossalmente una maggior coscienza della morte corrisponde ad un incremento della forza vitale e generativa, e un rito che la celebri la trasforma in un processo che è essenziale per la vita. Terapeuticamente i riti funebri sortiscono una sorta di “pacificazione” fra l’uomo e la morte e hanno un potente effetto sulla resilienza.

Per questo la morte in solitudine, fuori dal “cerchio magico”, rischia di lasciare tracce nel medio e nel lungo termine costituendo uno dei più importanti fattori di rischio di psicopatologia e di sofferenza psichica conseguenti al CoViD-19.

(...)

Il dopo CoViD-19: previsioni psicodiagnostiche

Purtroppo non tutti i lutti di questa pandemia hanno trovato una creativa e alternativa via d’espressione. Molti sono rimasti anonimi e muti. E molti saranno, probabilmente, quelli che vedremo nel tempo evolvere in modo patologico. 

Il DSM-5, l’ultima edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, inserisce il disturbo da lutto persistente e complicato tra le condizioni cliniche per le quali sono auspicate ricerche future. È ragionevole supporre che il 2021, anno successivo alle centinaia di migliaia di morti per CoViD-19, sarà un momento tristemente perfetto per approfondire l’argomento.

Attualmente il disturbo da lutto persistente e prolungato viene distinto dal lutto normale per la presenza di reazioni che persistono oltre i 12 mesi (sei mesi nei bambini), ed è questo il motivo per il quale non possiamo diagnosticarli adesso, ma possiamo prepararci a farlo tra non molto. Tali reazioni consistono in una persistente e intensa nostalgia della persona deceduta associata a preoccupazione per le circostanze della morte, difficoltà nell’accettare la morte, difficoltà ad abbandonarsi a ricordi positivi che riguardano il deceduto ed eccessivo evitamento di ricordi della perdita (per esempio l’evitare persone, luoghi o situazioni associati al deceduto), valutazione negativa di sé e senso di colpa (aggravata nel caso specifico del CoViD-19 per chi sa di essere stato veicolo di contagio), amarezza o rabbia in relazione alla perdita, pensiero di non farcela senza il deceduto e difficoltà o riluttanza nel perseguire i propri interessi o nel fare progetti per il futuro. Talvolta la sintomatologia comprende difficoltà nel provare fiducia verso gli altri, un diminuito senso della propria identità, sentire che parte di sé stessi è morta insieme al deceduto e addirittura desiderio di morire per essere vicino a lui. In sintesi un lutto si considera patologico quando si blocca l’esito di risoluzione che conduce al tornare a vivere rispetto al morire (psicologicamente) a propria volta.

I meccanismi che stanno alla base del lutto complicato non sono ancora del tutto chiariti, ma molti studi hanno fino ad ora individuato le variabili in grado di favorire lo sviluppo di un quadro di lutto patologico, e tra queste ricorre la percezione di una solitudine sociale. Studi recenti sui fattori di rischio predisponenti ad un decorso in senso negativo del processo del lutto identificano alcune grandi aree attinenti alla struttura della personalità, ai meccanismi di difesa, agli stili di attaccamento, la qualità della relazione con la persona deceduta, la presenza di scarse prospettive riguardo al proprio futuro dopo la perdita, e l’isolamento.

Sono numerosissimi ormai gli studi che confermano l’esistenza di un evento particolare vissuto come traumatico all’origine di molte malattie.

Il disturbo da lutto persistente e complicato è infatti associato anche a un marcato aumento dei rischi per condizioni mediche quali disturbi cardiaci, ipertensione, abbassamento delle difese immunitarie o malattie autoimmuni e cancro. Le anamnesi e l’osservazione clinica confermano a loro volta quotidianamente queste concomitanze, rilevando alcuni fattori che in particolar modo possono caratterizzare gli eventi dolorosi rendendoli traumatici: il fatto che colgano senza nessuna preparazione, arrivino cioè all’improvviso, e il fatto che vengano vissuti in solitudine, senza possibilità di condivisione. Due condizioni che hanno colpito i superstiti del CoViD-19, costituendo la premessa per una “tempesta perfetta”.

Per fortuna le complicazioni nei processi di elaborazione del lutto, come le depressioni, non si presentano dall’oggi al domani e questo dovrebbe dare alla comunità dei professionisti della salute un certo margine di tempo per lavorare su sostegno e prevenzione. Numerosi articoli della Chinese Psychology Society evidenziano nel loro paese alte percentuali di depressioni e disagi psichici post pandemici. Il dopo CoViD-19 dovrebbe prevedere un nuovo welfare psicologico per cercare di evitare che le patologie psichiche diventino la prossima epidemia.

L’abolizione dei riti celebrativi e funebri ha privato i superstiti di una prima fase fondamentale che avvia l’elaborazione del lutto, generando una serie di problemi psicologici particolari e nuovi. Alcuni pazienti riferiscono di sentirsi come sospesi, o smarriti. Altri ricorrono a termini come “congelato” o “pietrificato”. Queste persone si trovano in una specie di spazio-tempo sospeso dal quale non è possibile tornare indietro, ma nemmeno andare avanti. Quando questa pandemia terminerà, forse una cerimonia di saluto collettivo per tutti coloro che ci siamo lasciati alle spalle consentirebbe di “riavviare”, almeno in parte, il processo di elaborazione del lutto, e di assolvere ad una delle principali funzioni del rito: rafforzare la resilienza.

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