L'horror non uccide l'empatia: la scienza demolisce un falso mito

Arianna Bordi | Autrice e divulgatrice esperta in salute femminile, psicologia e salute del cervello
A cura di Arianna Bordi
Autrice e divulgatrice esperta in salute femminile, psicologia e salute del cervello

Data articolo – 31 Ottobre, 2025

Persona travestita con la maschera tipica del film horror "Scream"

Per decenni il pubblico e la critica hanno inforcato gli occhiali del pregiudizio, dipingendo gli appassionati di horror come persone fredde, insensibili, amanti del brivido che si nutrono della sofferenza altrui.

Persino per gli accademici la spiegazione più accreditata era semplice: chi ama l'horror è o privo di empatia o un mero drogato di adrenalina.

Ma la realtà è bene diversa: scopriamo perché.

Lo studio del 2007 sull’empatia: il falso mito

Il luogo comune più ostinato è che i fan dell'horror debbano mancare di empatia per godersi scene di sofferenza.

Gli studiosi si chiedono da tempo: perché le persone si divertono a guardare contenuti in cui i personaggi sono vittime o minacciati?

La meta-analisi del 2007 si è concentrata proprio su questo, esaminando tutti quei contenuti che vengono definiti spaventosi, horror o violenti:

  • i media violenti mostrano personaggi che vengono attaccati o feriti;
  • i media spaventosi/horror spesso includono violenza, ma il loro obiettivo principale è terrorizzare lo spettatore. L'horror in particolare ha spesso elementi soprannaturali.

Anche se "violento", "spaventoso" e "horror" sono termini leggermente diversi, hanno un punto chiave in comune: mostrano danni fisici (reali o minacciati) ai personaggi, causati da forze esterne (altre persone, disastri o eventi soprannaturali).

Per questo motivo lo studio li tratta per lo più in modo simile, concentrandosi sul motivo per cui il pubblico apprezza i media che raffigurano la vittimizzazione o la minaccia di danni ad altri.

Le variabili, però, sono mal definite: i due studi che mostravano una forte associazione con una scarsa empatia, ad esempio, non avevano esaminato l'horror in sé, ma il piacere per la tortura o per brevi clip che si concludevano con omicidi brutali e senza risoluzione.

Le novità dagli studi più recenti

Utilizzando metriche standardizzate per misurare empatia e compassione, non solo non è emersa alcuna prova che i fan dell'horror avessero punteggi inferiori, ma in alcuni parametri hanno addirittura registrato punteggi più alti rispetto alla media.

Le prove raccolte dipingono un quadro inequivocabile: chi ha alti livelli di curiosità morbosa dimostra una migliore preparazione alle crisi reali e una maggiore capacità di reagire durante gli eventi stressanti della vita.

È stato scoperto, dunque, un modello ben più complesso, con due profili distinti:

  1. White Knucklers: trovano l'horror spaventoso e non amano la paura, ma lo usano come un'opportunità per superare le proprie paure e imparare qualcosa sulla propria resilienza;
  2. Dark Copers: usano l'horror come una sorta di catarsi. Trovano nell'elaborazione di paure immaginarie uno strumento per affrontare emozioni ed esperienze difficili della vita reale.

A quanto pare, gli appassionati di horror potrebbero, letteralmente, mettere in pratica la regolazione emotiva semplicemente giocando con le proprie paure in un ambiente sicuro e divertente.

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L'horror stesso è la prova tangibile dell'adattabilità umana e della nostra straordinaria capacità di trovare significato, crescita e connessione anche nelle nostre paure più recondite: riconoscere questo non è solo un atto di giustizia verso il fandom, ma una profonda rivelazione sulla forza insita nella natura umana stessa.

Fonti:

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