Un rapporto a cura del Financial Times rivela una marcata diminuzione del numero di giovani adulti che scelgono il matrimonio o la convivenza, accompagnata da un declino significativo nei tassi di "formazione delle relazioni" in diverse nazioni, tra cui Thailandia, Finlandia, Perù, Corea del Sud e Turchia.
Negli Stati Uniti, inoltre, si è osservata una riduzione del tasso di matrimonio del 54% tra il 1900 e il 2022 e, parallelamente, una diminuzione delle frequentazioni tra i giovani, con la percentuale di ragazzi tra i 16 e i 18 anni che dichiarano di aver avuto relazioni al di sotto del 50%.
Il fenomeno prende il nome di relationship recession: le nuove generazioni, in particolare, mostrano una maggiore flessibilità nelle loro preferenze relazionali e una valorizzazione più intensa delle amicizie.
La psicologa Federica Ferrajoli (@una.psico) ci ha dato il suo punto di vista, con un focus su quanto sia importante ampliare la definizione di amore per una maggiore probabilità di trovarlo in forme diverse.
Si desidera meno la dimensione della coppia oppure non si riesce a raggiungerla perché si è troppo legati alla ricerca della propria indipendenza?
Nella mia esperienza clinica non osservo una diminuzione reale del desiderio di relazione. Al contrario, molte persone esprimono un bisogno profondo di connessione emotiva, di condivisione autentica e di reciprocità.
Tuttavia, questo desiderio convive con una crescente attenzione verso l’indipendenza personale, che oggi non è soltanto un ideale culturale ma spesso una “condizione di sopravvivenza”. Infatti, l’autonomia, anche economica, è per molte persone un presupposto irrinunciabile come elemento di tutela e autodeterminazione.
Questa evoluzione porta con sé una nuova complessità: tanti si interrogano su come poter vivere una relazione significativa senza compromettere il proprio spazio vitale, le proprie scelte, la propria individualità.
È una tensione che emerge spesso nei percorsi terapeutici: il timore che il “noi” diventi una minaccia per il “sé”. E allora la domanda non è più semplicemente “voglio una relazione?”, ma “come posso stare in una relazione senza sentirmi imprigionata, senza rinunciare a me stessa?”.
Questo dilemma è particolarmente sentito nelle generazioni più giovani, che hanno interiorizzato il valore dell’autorealizzazione come centrale nella costruzione della propria identità.
A causa della pandemia ci siamo isolati molto, anche dal punto di vista relazionale: quanto influisce questo aspetto?
Personalmente non credo che la pandemia abbia davvero cambiato la nostra capacità di entrare in relazione; piuttosto, è stata come muovere la sabbia sotto l’acqua, ha reso visibile ciò che già c’era.
Le fragilità, le paure, le difficoltà a fidarsi o a lasciarsi andare erano già presenti in molte persone, ma il ritmo della vita le teneva sommerse, quasi invisibili. Il lockdown, la solitudine forzata, l’interruzione delle abitudini sociali — tutto questo ha smosso quelle sabbie, portandole in superficie.
Molti hanno vissuto quel tempo come un momento di rivelazione: non tanto perché siano “cambiate” le loro dinamiche relazionali, ma perché hanno potuto osservare le proprie relazioni e, in molti casi, notare quanto fossero precarie, condizionate o insoddisfacenti.
In questo senso, direi che la pandemia è stata più uno specchio che una frattura: ha messo a nudo quanto spesso usiamo il rumore, la frenesia, le connessioni superficiali per evitare di stare con noi stessi — e, di riflesso, anche con l’altro in modo autentico.
Ora che siamo tornati a una vita apparentemente “normale” non tutti riescono a far finta che quella verità emersa sia sparita.
C’è chi è diventato più selettivo, chi più disilluso, chi più cauto, ma a non parlerei di un cambiamento antropologico generalizzato; piuttosto, direi che abbiamo avuto uno sguardo più chiaro sulle nostre dinamiche profonde. E in molti casi, quello sguardo continua a lavorare sotto la superficie.
Coltivare un rapporto è un impegno costante: la stanchezza dovuta alla vita lavorativa a che punto condiziona la costruzione di una relazione stabile?
La stanchezza emotiva e mentale che accompagna le nostre giornate incide profondamente sulla possibilità di costruire e sostenere una relazione stabile.
Viviamo immersi in un sistema che chiede sempre di più: produttività, reattività, prestazione continua. Siamo iper stimolati, sempre “accesi”, e questo lascia pochissimo spazio a ciò che richiede lentezza, presenza e profondità, come l’intimità affettiva.
In terapia, spesso pongo una domanda semplice ma scomoda: “quanta energia ti rimane, nelle tue giornate, per amare?” La risposta più onesta è quasi sempre: “poca”.
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Non per disinteresse o incapacità, ma perché l’amore, per quanto sia anche un sentimento, è soprattutto un’azione quotidiana, un fare. E per “fare” l’amore, nel senso più pieno del termine, servono attenzione, tempo, e una mente non esaurita.
Così, in molte relazioni, l’altro finisce col diventare una voce in più nella lista delle cose da gestire: il partner si trasforma in un impegno, la relazione in un compito da far funzionare. E quando l’amore diventa un’altra fonte di pressione, invece che uno spazio di ricarica, è inevitabile che qualcosa si logori.
Non è mancanza di desiderio, è saturazione emotiva: quando dentro siamo già troppo pieni di richieste, pensieri e urgenze, non resta spazio per accogliere l’altro.
Le coppie sono di meno, le tipologie di relazioni possono essere differenti: a suo avviso è per forza negativo?
Non credo che la diminuzione del numero di coppie tradizionali sia necessariamente un segno di decadenza o di crisi.
Piuttosto, vedo in questo cambiamento una forma di evoluzione, una trasformazione che rispecchia i mutamenti profondi della società e della psicologia individuale. Le forme relazionali si stanno diversificando perché le persone hanno oggi la possibilità – e talvolta il bisogno – di esplorare modelli diversi da quelli ereditati dal passato.
Non esiste una sola modalità valida per vivere l’amore, e il concetto stesso di “relazione di successo” si sta ridefinendo.
Ci sono persone che scelgono relazioni non monogame, altre che privilegiano legami fluidi o intermittenti, altre ancora che costruiscono famiglie al di fuori del paradigma romantico tradizionale. E tutte queste scelte, se vissute con consapevolezza, autenticità e rispetto reciproco, possono essere profondamente sane e appaganti.
La sfida, semmai, è uscire dalla retorica del fallimento quando una relazione non segue i canoni consueti o quando non “dura per sempre”.
Forse non si tratta tanto di salvare la coppia come istituzione, quanto di ridefinire il modo in cui stiamo in relazione.
Questo può generare incertezza, certo, ma anche una nuova libertà: in fondo, l’obiettivo non dovrebbe essere aderire a un modello, ma trovare un modo di amare che sia davvero coerente con chi siamo, qui e ora.