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Coronavirus in Italia: le curiosità che (forse) non immagini

Redazione

Ultimo aggiornamento – 14 Aprile, 2020

Coronavirus tutte le curiosità

In collaborazione con sanita_informazione


A cura del  Comitato Scientifico AIDM.


La parola VIRUS viene dal latino, e vuol dire VELENO. Il nome non è un caso: i virus sono microrganismi molto più piccoli delle cellule e, per vivere e replicarsi, debbono introdursi come parassiti in cellule animali, vegetali o batteriche, danneggiandole, come se le “avvelenassero”. 

Sono responsabili di molte malattie infettive e anche di alcuni  tumori. Tra essi, troviamo i Coronavirus: una vasta famiglia di piccolissimi virus, della dimensione di circa 100 nanomicron (sono 600 volte più piccoli del diametro di un capello!), composti da una membrana che avvolge un filamento di RNA, cioè il “programma genetico” della loro sopravvivenza e riproduzione. Hanno forma rotonda od ovale e presentano sulla superficie alcune proteine appuntite, dette spikes (cioè “picchi”), che li “decorano”, conferendo loro l’aspetto di una corona

Solitamente infettano gli animali; tuttavia, dall’inizio degli anni Sessanta, ci sono evidenze che alcune specie di Coronavirus possono causare ZOONOSI, cioè infezioni che compaiono nell’uomo per trasmissione del virus da un animale. Ad oggi, sette Coronavirus hanno dimostrato di potere infettare l’uomo, provocando patologie che vanno dal comune raffreddore a malattie ben più gravi, come la Sindrome respiratoria mediorientale (MERS), la Sindrome respiratoria acuta grave (SARS), e la recente Malattia Respiratoria Acuta da SARS-CoV-2, che è stata chiamata COVID 19 (dove "CO" sta per corona, "VI" per virus, "D" per disease che significa malattia, e "19" indica l'anno in cui si è manifestata). 

Per la MERS, gli studi hanno indicato i dromedari come serbatoi del virus, per la SARS, è stata confermata una vasta gamma di possibili serbatoi (zibetti, gatti domestici, furetti e pipistrelli), mentre per la recente COVID-19 gli studi indicano che il pipistrello, e forse un altro mammifero come ospite intermedio (pangolino?), abbia avuto un ruolo importante nel passaggio del virus all’uomo.

Da dove viene e come è stata possibile la trasmissione all’uomo?

Le zoonosi sono note e descritte fin dall’antichità. Ma i meccanismi con cui i virus passano dall’animale all’uomo sono ancora oggetto di studio.   

Possono essere di tipo diretto, in genere per rapporto di vicinanza con animali infetti (allevamenti, coabitazione, morsi…) o indiretto, dovuto al contatto con sostanze di derivazione animale (peli, piume, alimenti, tossine, acque inquinate da escreti animali…). 

Con l’avvento degli studi di genetica, nuove affascinanti ipotesi hanno permesso di comprendere modalità di trasmissione inter-specie altrimenti inspiegabili. Nella storia evolutiva di un virus può succedere che si verifichi una sorta di modificazione del suo RNA all’interno della cellula infettata. L’alterazione può essere tale da “abilitarlo” a contagiare un organismo ospite “diverso” dal suo serbatoio naturale, consentendogli un “SALTO DI SPECIE”  (“SPILLOVER” in inglese) anche all’uomo.

È accaduto, per esempio, per il virus del morbillo, che deriva dal virus della peste bovina per uno spillover che recenti stime biologico-molecolari hanno collocato intorno all’XI secolo, in comunità a stretto contatto coi bovini, e si è diffuso nel mondo (campagne militari, importazione del bestiame), determinando nei secoli lo sviluppo di naturali difese immunitarie e la costruzione di vaccini, ma può ancora a volte essere fatale dove la percentuale di vaccinati è bassa o in comunità non ancora venute in contatto con il virus: da gennaio 2019 a febbraio 2020 in Congo sono morte di morbillo più di 6.300 persone.     

Gli studi indicano che anche SARS-COV-2 è un virus "nuovo", mai identificato precedentemente nell’uomo, comparso per la prima volta in un grande mercato all’ingrosso di frutti di mare e di animali vivi (tra cui i pangolini) nel Sud della Cina, ampiamente popolata dai pipistrelli, serbatoi naturali dei Coronavirus. L’analisi dell’RNA del virus SARS-Cov-2 ha rilevato una altissima somiglianza sia con quello del Coronavirus dei pipistrelli locali, sia con quello del Coronavirus del pangolino, che “potrebbe” forse essere l’ospite intermedio tra pipistrello e uomo.

Per potere infettare un organismo animale, il Coronavirus entra nella cellula legandosi a specifici recettori cellulari dell’ospite, utilizzando le proteine spikes di superficie, con un meccanismo simile a una chiave che entra nella serratura, aprendo la porta.  

La differenza tra i filamenti del virus del pipistrello, del pangolino e del SARS-Cov-2 consiste proprio in “modificazioni del programma” delle proteine spikes, che hanno così permesso al neo-virus di legarsi a “serrature” alternative, compiendo il salto inter-specie e diventando pericoloso per l’uomo. Le spikes del SARS-CoV-2 si legano a un recettore umano chiamato h-ACE2 (enzima di conversione dell’angiotensina-2) e questa identificazione risulta di importanza fondamentale, perché il recettore potrebbe essere un bersaglio molecolare per la messa a punto di nuovi farmaci. Le ipotesi “complottiste” sulla possibile origine artificiale di questo virus,  o di manipolazione genica sono smentite dagli scienziati di tutte le nazionalità: i virus artificiali hanno caratteristiche completamente diverse agli occhi degli esperti, così come una sarta distingue facilmente un tessuto naturale da uno artificiale. 

L’11 marzo 2020, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato la COVID-19 una pandemia (epidemia che colpisce la maggior parte del mondo): come ha potuto diventare tale nel giro di qualche mese?  

Sicuramente l’alta contagiosità del virus e l’impreparazione ad affrontare all’improvviso un nemico sconosciuto (in termini di misure di contenimento, protezione delle categorie fragili, strategie diagnostiche, terapeutiche e vaccinali) hanno contribuito alla sua rapida diffusione. Tuttavia, Covid-19 è anche un fenomeno epocale, figlio della modernità: dell’intensità e facilità del traffico aereo, dell’inquinamento, delle megalopoli che invadono territori e causano la fuoriuscita di animali e virus dal proprio ambiente silvestre.

Le pandemie non sono una “punizione divina”, oppure una “vendetta della natura”, ma un “segnale di disequilibrio” tra le specie ospiti naturali dei virus e l’uomo, dovute a modificazioni del rapporto tra uomo, animali, ambiente, che favorisce evoluzioni biologiche differenti. Pertanto, la difesa da questa e da altre probabili zoonosi future si realizza non solo con la ricerca scientifica, farmacologica, vaccinale e con adeguati piani nazionali, ma anche modificando il nostro impatto sulla natura, con la salvaguardia degli ecosistemi naturali e non con la loro scellerata distruzione.

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A chi si trasmette?

La COVID-19 pare diffondersi soprattutto in una fascia climatica compresa tra 30 e 50 gradi di latitudine nord, dove le temperature medie si aggirano tra i 5°-11°C e l’umidità relativa è compresa tra il 47%-79%.

La trasmissione del virus è trasversale nella popolazione. Tuttavia, è impossibile conoscere il numero reale delle persone infettate rispetto alla popolazione sana: molti non hanno sintomi o li hanno molto lievi e i tamponi sono eseguiti ad un ristretto numero di persone selezionate. Pertanto, è possibile “contare” con esattezza solo le forme gravi, in specie i ricoverati e i decessi. 

Con questi limiti, i dati dell’Istituto Superiore di Sanità aggiornati all’8 aprile mostrano come in Italia la COVID-19 colpisca e sia potenzialmente letale proporzionalmente all’età.

L’età media del contagio risulta essere di 62 anni, con incidenza che va dall’1.6% (fascia 0-18 anni), al 26.8% (fascia 19-50 anni), 35.4% (51-70 anni) e 36.2% (oltre i 70 anni)

I dati indicano che il contagio non differisce sostanzialmente tra uomini (52.4%) e donne (47.6%), ma la gravità delle manifestazioni cliniche prevale negli uomini con età superiore ai 50 anni: la presenza di comorbidità e di condizioni di fragilità sembrano essere fondamentali nello sviluppo severo dell’infezione (trasversalmente nei due generi) che altrimenti decorre in forma lieve/moderata. Una categoria a parte è rappresentata dagli operatori sanitari, che risultano l’11% dei contagi totali (forse per la notevole carica virale cui sono in contatto, con inadeguate misure di protezione?), si ammalano d un’età più giovane e soprattutto sono di sesso femminile (forse per la femminilizzazione attuale della sanità?).

La letalità da SARS-CoV-2 è notevolmente inferiore rispetto a quella legata agli altri Coronavirus. 

La mortalità in Italia risulta dello 0.1% sotto i 19 anni, si aggira tra 0.1-0.9% (20- 49 anni), tra 2.4-9.0% (50-69 anni), tra 23.4-31.2% (70-89 anni), stabilizzandosi al 26.7% oltre i 90 anni.

Studi epidemiologici internazionali hanno dimostrato che la mortalità è maggiore in pazienti maschi (71% contro il 29% delle donne) e a un’età media inferiore a quella delle donne (79 anni, contro 82 anni nelle donne). Ciò può essere in relazione al fatto che la maggior parte dei geni delle proteine e dei microRNA coinvolti nella risposta infiammatoria e immunitaria sono localizzati sul cromosoma X e sono in parte regolate dagli estrogeni, rendendo le donne generalmente meno sensibili alla maggior parte delle infezioni virali e con prognosi migliore, anche se questo vantaggio diminuisce con il passare degli anni. 

Non sono da sottovalutare anche aspetti di genere non biologici: le donne sono più attente alla salute, consultano maggiormente i medici, sono più ligie al rispetto delle regole e alla misure di contenimento (uso delle mascherine, distanziamento sociale, lavaggio di mani), hanno stili di vita più sani (per esempio, nella fascia di età più colpita da COVID-19 l’abitudine al fumo era prevalente tra gli uomini). 

Anche se lo stato gravidico può essere una condizione di rischio per malattie dell’apparato respiratorio, le donne in gravidanza non sembrano manifestare una maggiore sensibilità all’infezione da SARS-CoV-2.

Inoltre, i dati finora a disposizione hanno dimostrato che il virus non si trasmette al feto per via transplacentare, nemmeno nelle madri positive con sintomi respiratori. Il parto delle gravide affette da COVID-19 può avvenire a seconda delle condizioni materno-fetali, senza ricorso elettivo al taglio cesareo, ma la possibile trasmissione virale al feto attraverso residui fecali materni deve scoraggiare il parto in acqua. 

Il SARS-Cov-2 non viene trasmesso al neonato nemmeno attraverso il latte materno e la cute della madre, tuttavia la puerpera positiva deve osservare le norme di protezione. 

Un recente studio cinese sui bambini evidenzia come, seppure numericamente meno colpiti, non siano risparmiati dall’infezione: nel 90% dei bambini affetti, la malattia si sviluppa con sintomi molto lievi/moderati o addirittura, nel 4% dei casi decorre senza sintomi e solo il 5% dei bambini esaminati ha manifestato una diminuita saturazione di ossigeno nel sangue. L’incidenza di malattia critica, con distress respiratorio o insufficienza respiratoria gravi, è dello 0.6% in bambini di età superiore ad 1 anno, mentre nei piccolissimi pazienti sale all’11% dei casi infetti.

Spazi chiusi, aria e superfici: come possiamo proteggerci? Quanto resiste, realmente, il virus? 

Secondo le prove attuali, il virus SARS-COV-2 che causa la malattia conosciuta con la sigla COVID-19 viene trasmesso principalmente tra le persone attraverso goccioline respiratorie e vie di contatto.   

Ciò può avvenire  in qualsiasi momento e luogo:  lavoro,  casa, mezzi di trasporto, supermercati,  strutture sanitarie. La causa principale dell’infezione è il contatto interumano, a meno di un metro di distanza, da persona affetta dalla malattia a persona sana, attraverso l’espulsione delle goccioline volatili che contengono secrezioni respiratorie chiamate “droplets” (in italiano: goccioline), che vengono emesse tossendo, starnutendo, parlando.    

Quando le particelle di gocciolina hanno un diametro> 5-10 μm (μm =micrometri: corrispondono a 0,001 millimetro, cioè a un centesimo di millimetro) vengono chiamate goccioline respiratorie.

Si è calcolato che le goccioline, nella massima parte dei casi, non superino il metro di distanza, prima di cadere al suolo. Questa è considerata quindi la distanza di sicurezza particolarmente in ambienti aperti. Per quanto attiene agli spazi chiusi, il rischio può essere indubbiamente maggiore: sia per una maggior concentrazione che, in caso di presenza di persona ammalata o portatrice asintomatica, può raggiungere il virus se l’ambiente non viene areato di frequente, sia per un maggior rischio di contatto con superfici contaminate o fomiti (infezione mediata da fomite = la fonte di contagio è un materiale contaminato). 

Questo rischio attualmente non è quantificabile. L’infezione mediata da fomiti rappresenta una via di trasmissione fondamentale nella diffusione di patologie come questa, molto spesso sottovalutata. L’emissione di droplets con la tosse fa sì che il virus si depositi sulle superfici degli oggetti sotto forma di film sottile. 

Il successivo contatto con la superficie contaminata rende le mani infettanti. A questo punto ci si infetta toccando una superficie mucosa come la bocca, il naso o gli occhi. Per quanto concerne la trasmissione aerea del virus, cioè il contagio tra individui posti a una distanza superiore a un metro, tramite non più le goccioline ma aerosol contenente il virus (l’aerosol comporta la formazione di particelle molto piccole che sono facilmente veicolate dalle correnti d'aria: in questo caso, è possibile la trasmissione a lunga distanza; i batteri non possono essere trasportati mediante aerosol perché troppo grossi!) è una eventualità che si realizza in particolare nelle aree di terapia intensiva e subintensiva dei reparti ospedalieri dedicati alla cura dei pazienti più gravi, sottoposti a ventilazione meccanica. Perciò il personale che assiste questi malati deve essere fornito di particolari mezzi di protezione, deve essere formato a come indossarli e soprattutto toglierli senza contagiarsi, e a come disinfettarsi. E deve essere separato dagli altri operatori. In un'analisi di 75.465 casi COVID-19 in Cina, la trasmissione aerea, al di fuori delle aree ospedaliere appena citate, non è stata segnalata.  

Quanto resiste realmente il virus?

Uno studio pubblicato dal New England Journal of Medicine ha messo in evidenza che un’ altra modalità di contagio del COVID-19 potrebbe aumentare il rischio d’infezione, anche se non si sa ancora in quale misura: la contaminazione ambientale.   

Questo teoricamente può avvenire attraverso il contatto con la superficie di un oggetto, quale la maniglia di una porta, il telefonino, le stoviglie, etc., con cui sia venuta a contatto una persona infetta.  

Questo studio ha dimostrato come il virus, spruzzato mediante un aerosol che simulava l’emissione concentrata dalle vie respiratorie umane, come potrebbe succedere in una rianimazione (ma non nei normali colpi di  tosse), sopravvivesse, perdendo poco alla volta la sua concentrazione quindi verosimilmente le capacità infettive, fino a 72 ore su una superficie di plastica, fino a 48 ore sull’acciaio inossidabile, fino a 24 sul cartone e non oltre le 4 ore sul rame.   

Ricordiamo inoltre che la sopravvivenza del virus risente del grado di umidità e delle condizioni diverse di temperatura, resistendo maggiormente a  quelle più basse. Ma la persistenza di virus in condizioni tali da poter provocare contagio nell’aria ambiente esterna, a oltre un metro di distanza da una persona infetta, non è stata finora provata.


L’infezione da SARS-CoV2 è totalmente nuova. La ricerca, le cure, i provvedimenti sanitari sono in continua evoluzione. Può accadere che quanto sappiamo oggi venga in parte modificato nei prossimi giorni, o che i provvedimenti e le terapie oggi consigliati non siano confermati nel prossimo futuro, ma sostituiti da altri migliori, più efficaci, più sicuri. Per tali motivi, il Comitato Scientifico della Associazione Italiana Donne Medico provvederà a successivi aggiornamenti e integrazioni di quanto sopra riportato. 

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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