Disturbo cognitivo lieve o demenza? Quando preoccuparsi secondo i nuovi dati

Alessandra Familari | Autrice e divulgatrice informazione sanitaria
A cura di Alessandra Familari
Autrice e divulgatrice informazione sanitaria

Data articolo – 18 Dicembre, 2025

Una donna con segni di disturbo cognitivo lieve o demenza.

Quante sono le persone con disturbo cognitivo lieve che sviluppano una demenza?

A rispondere aiutano i primi risultati del progetto europeo Ai-Mind, che ha monitorato per 24 mesi oltre mille pazienti in diversi Paesi europei, utilizzando valutazioni cliniche, biomarcatori e strumenti avanzati di analisi.

I dati aiutano a capire quando preoccuparsi davvero e perché la previsione del rischio è oggi uno degli obiettivi centrali della ricerca neurologica.

Vediamo dunque, secondo la ricerca scientifica, quanti sono gli individui a rischio e quando è il caso di preoccuparsi.

Disturbo cognitivo lieve: una breve panoramica

Prima dei numeri occorre  tracciare una panoramica del disturbo.

Il disturbo cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI) rappresenta una condizione intermedia tra il normale invecchiamento cerebrale e le forme di demenza. Le difficoltà riguardano soprattutto memoria e attenzione, ma non compromettono in modo significativo l’autonomia quotidiana


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Proprio questa “zona grigia” rende complessa la gestione clinica: alcune persone restano stabili per anni, altre invece peggiorano.

Secondo la ricerca neurologica, il focus su cui soffermarsi non è quello di stabilire se il MCI sia un rischio, ma capire in anticipo per chi lo è davvero.

Da disturbo cognitivo lieve a demenza: cosa dicono i nuovi dati 

Nel progetto Ai-Mind sono stati seguiti 1.022 soggetti con diagnosi di MCI in quattro centri clinici europei (Roma, Madrid, Oslo e Helsinki). Dopo due anni di follow-up:

  • circa il 10% dei partecipanti è evoluto verso una forma di demenza;
  • circa il 20% ha mostrato un peggioramento cognitivo significativo, pur rimanendo in una fase di MCI;
  • la maggioranza è rimasta clinicamente stabile.

Questi numeri confermano che il MCI non equivale a una diagnosi di demenza, ma identifica una popolazione eterogenea, con traiettorie molto diverse.

Ma perché non tutti peggiorano allo stesso modo?

Uno degli aspetti più interessanti dello studio riguarda le differenze tra le popolazioni europee. Nei Paesi del Nord Europa è risultata più frequente la presenza della variante genetica ApoE ε4, associata a un rischio più elevato di malattia di Alzheimer. 

In queste stesse popolazioni sono stati osservati anche livelli più alti di alcuni biomarcatori plasmatici legati ai processi neurodegenerativi, come p-tau181 e p-tau217.

Ma cosa significa? 

Tali differenze persistono anche tenendo conto di fattori come età, sesso e livello di istruzione, suggerendo che entri in gioco una vasta molteplicità di elementi.

Vediamo quali:

  • predisposizione genetica;
  • profilo biologico individuale;
  • modalità di diagnosi e stadiazione clinica;
  • organizzazione dei sistemi sanitari.

Il ruolo dell’intelligenza artificiale nella previsione del rischio

Il progetto Ai-Mind, avviato nel 2021 e finanziato dalla Commissione europea, utilizza un approccio integrato. I partecipanti sono stati sottoposti a:

  • test neuropsicologici approfonditi;
  • analisi genetiche;
  • dosaggio di biomarcatori plasmatici dell’amiloide;
  • elettroencefalogramma ad alta densità;
  • valutazioni ripetute ogni otto mesi.

L’obiettivo è analizzare questa grande mole di dati attraverso algoritmi avanzati di intelligenza artificiale, per identificare combinazioni di segnali in grado di indicare con maggiore precisione chi è a più alto rischio di evoluzione verso la demenza.

Disturbo cognitivo lieve: quando è il caso di preoccuparsi

Alla luce dei nuovi dati, gli esperti sottolineano che la preoccupazione non dovrebbe basarsi sulla sola etichetta diagnostica di MCI, ma su una valutazione più ampia. Destano maggiore attenzione:

  • un peggioramento cognitivo rapido nel tempo;
  • la presenza di specifici biomarcatori neurodegenerativi;
  • una predisposizione genetica nota;
  • difficoltà emergenti nelle attività quotidiane.

Al contrario, in assenza di questi elementi, molti individui possono convivere a lungo con un MCI stabile, senza sviluppare una demenza.

La diagnosi precoce si rivela sempre più necessaria.

Riuscire a distinguere in anticipo. o per tempo, quegli individui considerabili a rischio significa evitare allarmismi inutili per quei soggetti che non lo sono. E, soprattutto, intervenire prima nei casi in cui il pericolo si rivela concreto. 

Secondo lo studio, armonizzare i percorsi diagnostici a livello europeo e puntare su strumenti predittivi più accurati é da considerarsi un'esigenza decisiva, utile ad affrontare una delle principali sfide sanitarie dei prossimi decenni.

Dunque, "disturbo cognitivo lieve" non coincide in automatico con "demenza", Tuttavia, monitorarne l’evoluzione è oggi più possibile grazie ai nuovi dati della ricerca.


Fonti:

Ansa - Disturbo cognitivo lieve, il 10% evolve in demenza in due anni; presentati a Roma i risultati del progetto europeo Ai-Mind Rossini

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