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Le cause della violenza sui bambini

Alessandra Lucivero

Ultimo aggiornamento – 15 Dicembre, 2014

I recenti casi di cronaca, come la tragica storia del piccolo Loris, riportano l’attenzione su quanto sia comune purtroppo la violenza sui bambini. Abbiamo rivolto alcune domande al dr. Guglielmo Campione, psicoterapeuta, per cercare di riflettere insieme sulle ragioni che si celano dietro casi di questo tipo.

Si torna a parlare di casi di violenza domestica, di madri che commettono gravissimi atti nei confronti di figli indifesi: di solito quali sono le cause di tale comportamenti?

Parlerei di concause, per sottolineare un modello non meccanicistico causa effetto, ma che prenda in esame insieme il contesto sociale e culturale dell’epoca e dell’individuo coinvolto, in un continuo e vicendevole influenzarsi. Sappiamo che nelle storie individuali di queste donne, la depressione, post partum o non, con ideazione psicotica o dissociativa, può essere all’origine di gesti estremi. Frequente, la diagnosi di disturbi di personalità, impulsività e aggressività, e ancora di disturbi schizo-affettivi e di schizofrenia.

Si tratta, come sottolinea Brunetti, di madri che vivono il figlio come un “capro espiatorio” delle loro frustrazioni, o come causa di un’esistenza fallimentare, come un oggetto privo di umanità, come il frutto di gravidanze indesiderate. Spesso, in queste situazioni, l’odio per il marito viene rivolto verso il figlio, o ancora quello per la madre, vissuta come modello castrante e cattivo, fino al figlicidio ‘altruistico’ in cui la madre si suicida dopo aver ucciso il figlio per salvarlo dalla sofferenza, dai pericoli o dalle malattie.

Ma sottolineerei anche, esaminando il contesto culturale attuale, che ci sia una sorta di solitudine della donna concomitante ai grandi cambiamenti nella coppia e nella famiglia, nel lavoro. Non c è più il sacro rispetto che si deve a una donna in quanto potenziale “tempio della generazione vitale”. Non c è neanche una politica sociale di supporto alla donna, alla gravidanza e alla famiglia. Anzi, alle donne viene chiesto di annullare le differenze e di andare in pensione come gli uomini in nome dell’efficenza.

Un marito o un familiare può individuare dei comportamenti o dei segnali che siano prova di manie, di disturbi e difficoltà?

Talvolta, è possibile notare un perfezionismo ossessivo e un controllo rigido la cui violazione provoca reazioni d’intolleranza verbale e fisica e/o un’eccessiva aspettativa, prevaricante nei confronti dei figli, di soddisfazione di propri bisogni narcisistici e di autostima, frustrati in origine.
Altre volte, come parrebbe nel caso di Ragusa, i bisogni dei figli sono da ostacolo alla propria mancata individuazione e quindi visti come nemici di sé.
Un sé non ben strutturato e infantile che non riesce a vedersi nel futuro ma solo nel presente, e questo non permette di vedere la conseguenza futura dei propri comportamenti e di prendersi le proprie responsabilità.

Spesso le persone che soffrono di tali disturbi non comprendono bene la gravità del loro male e non sanno nemmeno come curarsi: c’è poca informazione su questi temi? Poca abitudine a rivolgersi a specialisti che curino i disturbi mentali?

Non direi che c’è poca informazione, ce n’è se mai troppa ma questo può condurre a non sapere come districarsi in questo sovraccarico informativo per le persone più svantaggiate e meno acculturate.

Senza dubbio, è ancora troppo paralizzante il pregiudizio culturale nei confronti dei medici psichiatri e scarsa la comprensione reale da parte dei più, (compresi i medici di famiglia che potrebbero esercitare un primo allerta strategicamente fondamentale nella prevenzione di base), del ruolo dello psicologo. Secondo una recente ricerca della Società Italiana di Psichiatria, sono circa diciassette milioni gli italiani con problemi di salute mentale: disturbi d’ansia, depressione, insonnia, disturbo post traumatico da stress. Di questi, solo l’8-16% incontra un professionista, e solo il 2-9% ha un trattamento adeguato, fatto di psicoterapia e farmaci. D’altronde, assistiamo a tagli invece che a potenziamenti, e uno Stato che taglia su tutto, come suggeriva Marta Tibaldi, “è simile a un genitore che perseguita invece di prendersi cura, e può riattivare vissuti traumatici infantili o aggravare modalità già fragili di rapporto con il mondo esterno“.

In che modo i familiari devono interagire con queste persone e aiutarle, quando riconoscono problemi, manie e disturbi seri?

Chiedere l’aiuto di esperti, invitandoli al proprio domicilio: è molto importante che non si aspettino le persone, sofferenti e resistenti alla coscienza di malattia nel proprio servizio, ma che si torni nelle case delle persone dove tra l’altro è possibile osservare comportamenti individuali e familiari nel loro contesto vero.

Come affrontare il dolore che segue questi gravissimi atti di violenza?

L’unico strumento culturale a disposizioni degli esseri umani è la Koinodinia, dal greco antico, la condivisione comunitaria dell’esperienza del dolore. E non certo con talk show o trasmissioni, dove si spettacolarizza in modo voyeuristico il dolore, ma con terapie di gruppo e individuali che permettano la vera cura dell’anima ferita, sia della vittima che dell’aggressore, riportando entrambi dall’inferiorità subita e pervertita in potere, alla dimensione relazionale del confronto, dell’amore e dell’empatia.

 

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Scritto da Alessandra Lucivero

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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