Con il passare degli anni, capita di trovarsi più spesso nella situazione di “avere le parole sulla punta della lingua“, ma di non riuscire proprio a ricordare il termine esatto che si sta cercando. O magari di dimenticare il nome di quel ristorante che c’era piaciuto tanto…
Capita, insomma, che si possano riscontrare alcune difficoltà nel linguaggio. È fisiologico? O si tratta di segnali da non sottovalutare? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Mancini, logopedista della Federazione Logopedisti Italiani.
Dopo i 65 anni c’è effettivamente fragilità maggiore?
Come in tutte le cose, esiste una predisposizione: c’è chi è più verbale, chi lo è meno.
Anche la cultura conta. A quali fonti si ha accesso oltre alla tv? Quanto si legge e cosa si legge? Queste sono variabili personali e culturali da cui non si sfugge. Però, certamente, dopo una certa età c’è una fisiologica perdita per nomi propri e parole a bassa frequenza d’uso.
Il che diventa più evidente se la persona comincia ad avere molte latenze anomiche, parafasie verbali (es. dice “camion” anziché “tavolo”), semantiche (“bicchiere”/“piatto”) o fonologiche (“tazza”/“tassa”). O ancora: forme di agrammatismo (si semplificano molto le frasi) o se parole difficili diventano ancora più difficili da articolare. Tutto questo può rientrare in un quadro di decadimento fisiologico: ma se accade troppo spesso, è necessario rivolgersi al medico.
Quando è “troppo spesso”?
Si tratta di un parametro soggettivo: il migliore metro di misura è la persona stessa. Gli altri, chi sta intorno, possono più che altro supportare le ipotesi che la persona formula.
La negazione è una reazione frequente?
Spesso la dinamica è questa: inizialmente è la persona che dice: “Mi accorgo che mi mancano le parole”. Quando però inizia a capire che effettivamente c’è qualcosa che non va, tende a minimizzare (negazione, rimozione, …). Ma a quel punto è chi le sta vicino che inizia a dire: “In effetti percepisco che qualcosa non va”.
Tipicamente, si arriva a un compromesso tra familiari e paziente e ci si rivolge a uno specialista per una valutazione neurologica e neuropsicologica.
Di quali patologie stiamo parlando?
Oltre i 65, a meno che non ci sia stato un evento acuto come uno stroke (ictus), se la perdita di linguaggio avviene in maniera più lenta, si può pensare a una demenza, come accade nelle afasie progressive, che rientrano in quel quadro di decadimento cognitivo la cui la caratteristica principale è proprio la perdita di linguaggio.
Attenzione: non è solo l’aspetto della produzione a essere compromesso, ma anche quello della comprensione. Si evidenzia una difficoltà a decodificare messaggi, prima complessi poi anche semplici, o messaggi che arrivano da più fonti.
Che cosa bisogna fare?
L’ideale è rivolgersi precocemente a specialisti della riabilitazione del linguaggio che, insieme ad altre figure, possono fare diagnosi e intervento. Il trattamento non sarà restitutivo: non si ripristina la funzione (il peggioramento del quadro clinico è insito nella patologia progressiva), ma si lavora sul mantenimento di alcune modalità comunicative e soprattutto sulla consapevolezza del paziente.
Molto spesso, trovandosi in difficoltà, la persona va in ansia: ansia che peggiora la ricerca del vocabolario e che ingenera una tendenza al ritiro sociale, per evitare che gli altri se ne possano accorgere. C’è dunque anche un aspetto psicologico importante da assecondare, aiutando il paziente a ritrovare la serenità comunicativa e sociale.
Si fa un counselling ai famigliari, si prepara la persona a utilizzare modalità integrative, come i comunicatori: che possono essere tecnologici come un iPad, tavole con luoghi, emozioni, frasi già pronte o altro ancora.