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Biotestamento: i risvolti psicologici del Decreto

Redazione

Ultimo aggiornamento – 14 Aprile, 2020

biotestamento: l'impatto psicologico

Dr. Domenico G. Bozza, psicologo. 


Biotestamento, diritto alla morte, suicidio assistito. Se ne sente parlare tanto, soprattutto in questi giorni dopo l’approvazione da parte della Camera della proposta di legge sulle “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento sanitario”. 

Abbiamo chiesto al dr. Domenico G. Bozza, psicologo, qual è l’impatto che il testamento biologico ha sulle persone.

Biotestamento e benessere psicologico del paziente: secondo lei quale può essere l’impatto sulle persone?

La vita è il bene più prezioso che si possa avere. Proviamo a immedesimarci psicologicamente in un individuo che si ritrova, suo malgrado, in condizioni disperate, come potrebbero essere i postumi di un incidente stradale. Cosa potrebbe pensare, dire, esclamare?

Amo la vita. Amo l’orchestra dei miei organi vitali, perché ognuno di essi ha strumenti che liberano un suono sublime. Il mio cuore che pulsa… i miei polmoni che respirano il profumo dei fiori… il mio cervello che pensa e si emoziona. Una meravigliosa sinfonia che è la Primavera di Vivaldi.  Poi un incidente stradale mi distrugge qualsiasi accordo. Perché gli strumenti stessi si sono distrutti in modo irreversibile. Non sento più quel suono, quei profumi. Non vedo la vita. Con gli occhi e con la speranza. La mia orchestra non c’è più. È il Requiem. Le macerie del mio essere vegetale sono umilianti quella vita che ho tanto amato. Voglio morire. Ho il diritto di morire perché la dignità di me stesso voglio almeno portarla via con me“.

Questo è quel che potrebbe accadere nella mente di un uomo, rispetto al suo destino o a ciò che lo attende. Il Biotestamento, allora, può rappresentare un valido sistema per permettere a ogni essere umano di reimpossessarsi di un diritto sacrosanto che è quello della libertà di scegliere, in un contesto di democrazia che parte proprio da quel bene prezioso e che si associa pure a gesti che dovrebbero sempre più essere promossi, come quello della donazione degli organi: la vita che dona la vita. Il benessere psicologico parte proprio dal sapere, anticipatamente, che le mie volontà saranno rispettate e con esse, la mia dignità.

Obiezione di coscienza: perché un medico rifiuta una particolare scelta del paziente?

Non si può, purtroppo, prescindere dal fatto che, quando si svolge una professione sanitaria, si riesca a ‘sezionare’ il camice dalla persona. Ognuno di noi è fatto di ‘ingredienti’ valoriali che provvedono a rendere visibile e fruibile esternamente la personale ‘ricetta’ nelle relazioni umane.

Partiamo dal presupposto che un medico che ha prestato giuramento di Ippocrate. In uno dei punti di tale giuramento si afferma: “di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale”. Già questo (ed altri punti del giuramento), ci aiutano a comprendere che il medico si viene a trovare oggi di fronte a un bivio, la cui opzione di scelta è fortemente ardua.

Scelgo il fine mio primo che è quello della salvaguardia della vita del mio paziente o quello che proprio il mio paziente sta scegliendo e che però rappresenta un sè un gesto drastico e senza ritorno? È lecito pensare che ogni medico abbia anche un personale vissuto fatto di retaggi non solo culturali ma anche religiosi.

Ma gli aspetti che hanno allarmato i mass media e quindi la comunità scientifica, sono quelli legati al cosiddetto “accanimento terapeutico“: il cammino è ancora lungo, psicologicamente parlando, prima che si giunga a comprendere quale sia la sottile linea di demarcazione tra diritto alle cure ed oltraggio alla dignità dell’uomo.

Eutanasia: come stare vicino a chi sceglie la morte assistita e il diritto alla morte?

La “buona morte” o la “dolce morte”. Detto così, suonano assai in modo stridulo queste parole che associano un passaggio così doloroso e definitivo ad aggettivi positivi. È lecito pensare che una ‘preparazione’ non solo sia da pensare per chi sceglie questa via estrema, ma anche per tutta l’organizzazione familiare che sta attorno al malato.

In altre parole, scegliere di morire significa fare una scelta irreversibile che predispone al cambiamento definitivo figli, madri, padri, mogli e mariti, tutti coloro i quali hanno legami profondi affettivi, emotivi, sentimentali la cui frattura è potenzialmente possibile non solo nel breve, ma anche nel medio e lungo termine.

La morte fisica si accompagna alla morte psichica, assai più difficile da sanare. Sarà opportuno formare e costituire (un po’ come oggi si fa nel caso della Psicologia dell’emergenza, per esempio nel post-terremoto) equipe di psicologi che effettuino training finalizzati a fare assistenza specializzata sia nei confronti del malato che dei parenti.

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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