Forse, tra qualche tempo, chiedersi quanti anni ci restino ancora da vivere potrà avere una risposta certa. A far pensare a questa possibilità, andando oltre i classici fattori di rischio, è uno studio condotto da un’equipe coordinata dal dr. Joris Deelen che ha coinvolto l’Università di Leiden, il National Institute for Health and Welfare della Finlandia e l’Università del Brunei, pubblicato poi su Nature Communications.
La ricerca ci pone infatti dinnanzi a 14 biomarcatori che, quando valutati assieme al sesso del soggetto, potrebbero risultare più efficaci nel definire il rischio di morte a 5 e 10 anni rispetto alla valutazione dei classici fattori di rischio oggi considerati.
Ma come ottenere risposta a questa fatidica domanda? È sufficiente un classico prelievo di sangue. Cerchiamo di capirne di più.
Quei 14 biomarcatori che indicano il nostro stato di salute
Insomma, grazie all’impiego di questi esami i medici potrebbero non solo definire l’effettivo rischio di morte di una persona (a qualsiasi età!) ma, soprattutto, porre in atto strategie terapeutiche maggiormente aggressive e personalizzate, in base alla storia clinica del soggetto.
I biomarcatori sono stati analizzati su una popolazione di 44.168 persone, di età compresa tra i 18 e i 109 anni. Ristringendo il raggio di sostanze, gli esperti sono riusciti a determinare i test che possono risultare necessari per definire il rischio di morte nel periodo che va dai cinque ai dieci anni successivi al controllo. In particolare, l’equipe ha così cercato i biomarcatori più alti in coloro che vivevano più a lungo e li ha utilizzati per determinare il rischio di mortalità. Il tutto, in modo più efficace rispetto a quanto avviene con le tradizionali valutazioni: dalla misurazione del colesterolo, della glicemia alla misurazione della pressione sanguigna.
“I 14 biomarkers considerati – scrivono gli autori dello studio – sono coinvolti in processi diversi, dal metabolismo delle lipoproteine e degli acidi grassi alla glicolisi, all’equilibrio dei liquidi e all’infiammazione”. Già 4 marcatori (di cui tre ripresi in questa analisi) erano stati precedentemente individuati, ma l’accuratezza predittiva di questo studio sembra essere di gran lunga superiore.
Come ovvio, ad oggi non possiamo ancora parlare di un impiego di tale strategia di valutazione nella pratica clinica. In ogni caso, la ricerca non si ferma. “È un passo avanti emozionante ma sono necessari ulteriori ricerche prima che un test del genere possa essere utilizzato come esame convenzionale” – hanno dichiarato gli autori. Si attendono ora nuovi studi, per arrivare da un lato a considerare quali sono gli individui a maggior rischio e dall’altro su quali persone vadano puntate le strategie preventive e di cura più efficaci.
Età biologica ed età anagrafica
“Come ricercatori sull’invecchiamento, siamo desiderosi di determinare l’età biologica. L’età anagrafica non dice molto sullo stato generale di salute delle persone anziane: un 70enne è in buona salute, mentre un altro potrebbe già soffrire da tre malattie” – ha dichiarato l’autrice principale dello studio, dr.ssa Eline Slagboom.
Perché no, l’età anagrafica e quella biologica molto spesso non coincidono. Pur essendo correlata e in parte determinata dall’età anagrafica, l’età biologica è infatti influenzata da numerosi altri fattori, in particolare genetica, essere uomo o donna, ambiente e stile di vita, con particolare importanza all’abitudine a fare esercizio fisico.
E se sull’età anagrafica non possiamo incidere, possiamo fare qualcosa per tenere giovane la nostra età biologica: uno stile di vita corretto, in particolare un peso corporeo nella norma, non fumare ed eseguire regolare attività fisica.