Se pensiamo agli psicofarmaci, le prime immagini che ci vengono in mente spesso non sono quelle dei manuali di medicina. Piuttosto, pensiamo ad alcune rappresentazioni della cultura popolare dove la salute mentale, spesso, è raccontata tra drammi, malintesi e disperazione.
Ma quanto di queste rappresentazioni corrisponde davvero alla realtà odierna? Come vengono percepite le terapie farmacologiche in Italia?
Per rispondere, abbiamo analizzato i dati di un sondaggio che la nostra redazione ha lanciato, condotto su 466 persone.
Il risultato è un ritratto sfumato, che racconta di paure ancora concrete, ma anche di una crescente consapevolezza. Una fotografia che invita a riflettere non solo sulle esperienze individuali, ma anche sui meccanismi culturali che plasmano il nostro modo di pensare alla salute mentale.
Chi ha partecipato al sondaggio
Il campione ha una composizione interessante: il 45% degli intervistati ha tra i 45 e i 64 anni e il 63% si identifica come donna.
Una generazione che, in un certo senso, ha vissuto la trasformazione culturale sulla percezione della salute mentale: dagli anni in cui "psicofarmaco" era sinonimo di vergogna, a oggi dove, almeno sulla carta, si parla più apertamente di depressione, ansia, disturbi psicologici.
La consapevolezza è alta: il 92,5% dei partecipanti afferma di sapere a cosa servono gli psicofarmaci, solo il 17% dichiara di averli assunti personalmente.
Stigma: il fantasma che resiste
Il dato forse più potente emerso dal sondaggio è che il 100% degli intervistati riconosce l'esistenza di uno stigma legato all’uso degli psicofarmaci, seppur in forme diverse.
Non siamo più ai livelli di qualche decennio fa, quando chi assumeva psicofarmaci veniva automaticamente etichettato come instabile, ma il retaggio culturale si sente ancora.
Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, lo stigma è ancora oggi uno dei principali ostacoli al trattamento efficace della salute mentale.
Inoltre, in Italia, l'Istituto Superiore di Sanità conferma che l'accesso alle cure psichiatriche è spesso frenato dalla paura del giudizio sociale.
C'è però una nota di speranza: il 65,2% dei rispondenti ritiene che la percezione verso le cure farmacologiche per la salute mentale sia migliorata negli ultimi anni.
Si comincia, lentamente, a vedere chi chiede aiuto non come una persona debole, ma come qualcuno che sceglie di prendersi cura di sé.
E sempre più spesso, la narrazione popolare si arricchisce di storie positive: da romanzi a film contemporanei, passando per le serie TV che raccontano, senza drammatizzazioni, il percorso verso il benessere mentale.
Cosa ci fa paura degli psicofarmaci?
Leggendo le risposte aperte del sondaggio, emerge un ventaglio di emozioni profonde e intime.
Quando si parla di psicofarmaci, le prime parole che affiorano sono paura, dipendenza, chimica, ma anche cura, aiuto, rinascita.
Una dicotomia fortissima, come se per lo stesso fenomeno ci fossero due immaginari opposti: da un lato, la paura di perdere sé stessi; dall’altro, la speranza di ritrovare una qualità della vita migliore.
Tra le paure principali:
- Effetti collaterali: menzionati dal 48% degli intervistati. Il terrore di non riconoscersi più, di perdere lucidità, di "appiattirsi" emotivamente.
- Dipendenza: una preoccupazione per il 32%. La paura di diventare schiavi di una processi chimici esterni.
- Paura di cambiare la propria personalità: menzionato dal 28%. Un timore quasi filosofica: è possibile essere ancora se stessi dopo l'inizio della terapia?
- Timore del giudizio sociale: segnalato dal 25%. La paura di essere etichettati, additati, esclusi.
Questi timori non sono infondati: come ricorda un recente studio pubblicato su The Lancet Psychiatry (2023), la gestione degli effetti collaterali è uno dei principali motivi di abbandono della terapia.
In questo senso, l’immaginario culturale contemporaneo sta facendo un lavoro importante: normalizzare le fragilità senza ridurle a caricature.
Una frattura generazionale
Un altro dato cruciale riguarda il divario tra generazioni.
Il 63,3% degli intervistati vede le nuove generazioni, Millennials e Gen Z, come più aperte, informate e meno stigmatizzanti verso l'uso degli psicofarmaci.
Al contrario, la generazione della Gen X e i Boomer vengono spesso descritti con termini come "diffidente", "ancorata a vecchi stereotipi", "timorosa".
Questo cambiamento si riflette anche nelle campagne di sensibilizzazione contemporanee: basti pensare al boom di creator su Instagram o TikTok che parlano apertamente di ansia, terapia e salute mentale, normalizzando conversazioni che fino a pochi anni fa sarebbero state tabù anche se spesso anche questo tipo di comunicazione può essere dannosa e portare all’autodiagnosi.
Come combattere davvero lo stigma?
Quando abbia chiesto ai partecipanti del sondaggio cosa potrebbe fare la società per ridurre il pregiudizio, le idee sono chiare:
- Più informazione corretta: richiesta dal 42% degli intervistati.
- Più storie positive: il 35% crede che raccontare esperienze di successo sia fondamentale.
- Educazione emotiva nelle scuole: auspicata dal 30%.
Tutte soluzioni che coincidono con le raccomandazioni del Mental Health Action Plan 2013–2030 dell'OMS, che sottolinea come solo una società capace di educare, informare e normalizzare potrà davvero abbattere il muro dello stigma.
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Inoltre, una cultura della salute mentale più matura dovrebbe anche insegnare a riconoscere la differenza tra disagio passeggero e patologia clinica, evitando sia l’allarmismo che la banalizzazione.
Guardando al futuro
Come sarà il futuro della salute mentale e degli psicofarmaci tra dieci anni?
La maggior parte degli intervistati si dice ottimista: intravede un mondo più consapevole, più gentile verso chi lotta con disturbi invisibili.
Non mancano, però, le voci critiche che temono una medicalizzazione eccessiva della vita quotidiana.
Un tema sollevato anche da Allen Frances, ex direttore del DSM-IV, nel suo saggio Saving Normal (2014), dove mette in guardia dai rischi di etichettare come patologiche esperienze umane normali.
La sfida, dunque, sarà duplice: continuare a normalizzare la richiesta di aiuto, senza trasformare ogni emozione difficile in una malattia da curare con una pillola.
Sarà necessario mantenere viva l’idea che la sofferenza, quando affrontata con strumenti adeguati, può diventare parte del percorso umano, non necessariamente un sintomo da "eliminare".
Conclusioni
Oggi in Italia convivono due narrative: una obsoleta, che teme e stigmatizza gli psicofarmaci; e una nuova, che li vede come strumenti legittimi per il benessere mentale.
Il futuro? Dipenderà da come sapremo raccontare la salute mentale: con onestà, con empatia, e con prospettiva che alcune opere della cultura contemporanea ci hanno già insegnato a usare.
Come ricorda il World Mental Health Report dell'OMS, "la salute mentale non è solo sopravvivere: è vivere pienamente".