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Coronavirus: perché ci dicono di stare in casa

Redazione

Ultimo aggiornamento – 15 Giugno, 2022

Nelle scorse settimane, il nord Italia ha attuato una serie di misure restrittive e precauzionali per impedire il contagio del nuovo coronavirus: dalla quarantena obbligatoria per le zone rosse, a chiusura di asili, scuole, università, musei, teatri e chiese anche nelle zone gialle o non ad alto rischio. Anche gli esercizi commerciali e i locali sono rimasti chiusi dopo le 18,  divieto poi modificato in una apertura anche serale ma che prevedesse soltanto il servizio al tavolo, per evitare assembramenti al bancone.

Le misure, insomma, sono state perlopiù coerenti con un modello di intervento volto a limitare la socialità. Il problema cruciale, infatti, si presenta se tante persone si ammalano contemporaneamente e questo non perché dal nuovo coronavirus o nCoV-19 non si possa guarire, ma proprio per far sì che i pazienti malati possano ricevere le cure che meritano. Vediamo perché.

Andamento del coronavirus e abbassamento del picco dei contagi

Il normale decorso del coronavirus è schematizzabile in un grafico che in statistica prende il nome di "distribuzione normale" (si tratta infatti della tipologia di grafico più diffusa in statistica, e schematizza le situazioni come la distribuzione del QI, della media dei voti all'università o del peso corporeo nella popolazione totale).

Tale grafico presenta una curva molto evidente, che coincide con il picco del contagio, preceduta da una rapida salita e seguita da una altrettanto rapida discesa. Questa curva è anche nota come campana di Gauss. La diffusione di una malattia nel tempo tende quindi a seguire questo grafico: il numero dei contagi aumenta fino a raggiungere il picco per poi diminuire. 

Attenzione, però: questo non significa che qualsiasi provvedimento sanitario sia inutile soltanto perché l'andamento a campana, una volta raggiunto il picco, seguirà naturalmente il suo decorso.

Infatti, se si applicano misure di contenimento delle epidemie, si può abbassare il picco, diluendolo però nel tempo. Questo significa, ad esempio, che anziché avere un picco di 100 malati in due giorni, ossia l'equivalente di 50 malati al giorno, gli stessi casi si verificheranno nell'arco di 10 giorni, ossia con una media di 10 malati al giorno.

In questo modo, l'effetto dell'epidemia risulterà diluito nel tempo e il sistema sanitario risulterà maggiormente in grado di affrontare questa condizione senza iperaffollamenti  di reparto e senza risultare ingorgato di pazienti, compromettendo in questo modo la guarigione di tutti.

Perché è importante restare a casa

Per capire come mai è importante ridurre i contagi evitando il più possibile contatti non necessari, è bene ribadire le informazioni raccolte finora sul nuovo coronavirus: si tratta, come suggerisce il nome stesso, di un virus nuovo, per proteggerci dal quale non abbiamo né pronto un vaccino né sviluppato difese immunitarie adeguate.

I più a rischio sono i pazienti con sistema immunitario debole o perché immunodepressi, o perché malati di altre patologie debilitanti (polmonari, oncologiche e cardiovascolari) o perché anziani (in cui entra in gioco l'immunosenescenza o l'indebolimento del sistema immunitario a causa dell'età).

Il nuovo coronavirus è anche molto più infettivo di un semplice virus influenzale, dunque si diffonde con maggiore facilità e più rapidamente.

Il professor Gabriel Leung, uno dei maggiori esperti dell'epidemia del nuovo coronavirus,  ha affermato  che potrebbe colpire fino al 60-80% della popolazione se non si attuano le misure necessarie per contenerlo.

Se dunque l'infettività stimata è del 60%, questo significa che se non adeguatamente contenuto, il virus potrebbe arrivare a infettare 30 milioni di italiani (60% di 50 milioni), numeri insostenibili dal punto di vista dei reparti di terapia intensiva del Sistema Sanitario Nazionale.

Dunque, meglio evitare le possibilità di contagio stando a casa il più possibile: in questo modo l'infezione risulterà più contenuta e il personale sanitario riuscirà a curare al meglio i pazienti, farli guarire e liberare nuovamente posti letto.

Se invece questo non si dovesse verificare, l'infezione non verrà contenuta e il rischio è che non si riescano a gestire i pazienti, con ripercussioni sulla salute e, purtroppo, sul tasso di mortalità.

Contenere i contagi da coronavirus: il parere degli esperti

Il noto virologo Roberto Burioni fa sapere tramite un post su Facebook che una ripresa indiscriminata dei contatti sociali "non va bene, non va bene, non va bene. La gente in questo momento deve stare a casa. Tutto quello che causa un affollamento deve essere evitato." E poi rincara la dose aggiungendo: "ho la sensazione che molta, troppa gente non abbia capito con che cosa abbiamo a che fare. Forse alcuni messaggi troppo tranquillizzanti hanno causato un gravissimo danno inducendo tanti cittadini a sottovalutare il problema" in riferimento alle strade gremite di gente in tante città italiane.

Questa affermazione è sostanzialmente in linea con  le dichiarazioni rilasciate  a Che tempo che fa l'1 marzo:  " dobbiamo sperare che i provvedimenti presi portino, se non a una diminuzione, a un minore aumento dei casi, ricordando che questo è il momento in cui l'epidemia è maggiormente aggredibile. Dobbiamo fare di tutto per rallentarla, per un motivo molto semplice: in rianimazione tanti pazienti potranno guarire proprio perché assistiti [...] quindi sono necessari posti letto. Nella migliore delle ipotesi, fermeremo l'epidemia, nella peggiore la diluiremo nel tempo, potendola affrontare meglio e avendo danno molto inferiori."

Dello stesso avviso anche la virologa Ilaria Capua che in una intervista televisiva del 22 febbraio a Le parole della settimana ha ribadito che "prevenire è meglio che curare. [...] Dobbiamo fare in modo che il contagio si rallenti e questo si può fare mitigando i suoi effetti: se si ammala il 20% della popolazione tutta insieme è un disastro. Se ci si ammala invece a percentuali ridotte non si ingorgano gli ospedali e non si creano situazioni di panico".

Infine, Massimo Galli, primario infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano, in una recente intervista datata primo marzo ha dichiarato:"in quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive e delle rianimazioni di un’intera regione tra le meglio organizzate e preparate alle emergenze d’Italia. Nessun sistema sanitario avanzato può essere predisposto per ricoverare tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento". E conclude poi tranquillizzando sul decorso della malattia ma ribadendo la necessità del contenimento dei contagi"La maggior parte dei malati guariscono senza danni permanenti, anche tra quelli con i quadri peggiori. Ma in Lombardia ce ne sono tanti e bisogna assolutamente evitare che diventino troppi. La zona rossa non si è estesa alle aree metropolitane e mi auguro che le restrizioni imposte e mantenute contribuiscano a far rimanere così le cose".

Dati ed esperti, dunque, ancora una volta, respingono i facili allarmismi e  invitano alla prudenza, al buon senso ma soprattutto alla responsabilità civica di tutti noi.

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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