È solo un'ipotesi e come tale necessita di conferme. Da quanto emerso da uno studio pubblicato sulla rivista BMJ Global Health, però, aver contratto il Coronavirus non serve a proteggerci da una nuova infezione.
Anzi, l'immunità acquisita non solo potrebbe non essere protettiva, ma potrebbe addirittura rivelarsi controproducente, favorendo re-infezioni con sintomi più gravi.
Cerchiamo di capirne di più.
Gli anticorpi anti-Covid: qual è il loro ruolo?
Partiamo da un presupposto: nonostante la materia sia oggetto di studio di ricerche internazionali, non è ancora chiaro se l'infezione da nuovo Coronavirus conferisca o meno immunità permanente oppure se il rischio di ammalarsi rimanga.
Da quanto emerso da questa nuova ricerca a firma di Luca Cegolon, medico epidemiologo presso l'Ausl 2 di Marca Trevigiana di Treviso, però, i sette diversi ceppi di Coronavirus umani (a cui appartiene il Sars-Cov2) sono noti per «causare re-infezioni, indipendentemente dalla cosiddetta immunità umorale, cioè quella che si acquisisce quando ci si ammala sviluppando gli anticorpi». Insomma, tutti i coronavirus possono essere contratti più di una volta, indipendentemente dagli anticorpi sviluppati inizialmente.
Non solo. Per i ceppi più pericolosi, il Mers-CoV ed il Sars-CoV, è stato identificato un fenomeno immunologico noto come Antibody Dependent Enhancement (Ade), che si scatena a seguito di re-infezioni. In pratica, l’immunità acquisita può fungere da boomerang, «alleandosi con il virus stesso durante infezioni secondarie per facilitarne l'ingresso nelle cellule bersaglio, sopprimere l'immunità innata e scatenare o amplificare una reazione infiammatoria importante dell’organismo». Dunque, negli ex-pazienti Covid-19, l'anticorpo preesistente riuscirebbe a sopravvivere, andando a creare una risposta infiammatoria moltiplicata con una riduzione della risposta innata. Non si esclude, infine, che il meccanismo dell'Ade nella Sars-Cov2 potrebbe anche essere provocato da infezioni da parte di altri virus respiratori, come il raffreddore o l'influenza.
Insomma, nel caso di una nuova ondata, una persona che ha contratto il Coronavirus nei mesi scorsi, il prossimo autunno potrebbe ammalarsi di nuovo. E la seconda infezione potrebbe anche avere sintomi e conseguenze ben peggiori della prima.
I risvolti dello studio
Come già sottolineato, a oggi si ragiona ancora nel campo delle ipotesi. «Da un certo punto di vista - ha dichiarato Luca Cegolon - a noi non dispiacerebbe essere smentiti, perché, se la nostra ipotesi fosse confermata, ci sarebbero forti implicazioni non solo per la terapia dei casi critici di Covid-19, ma anche (in negativo) per la produzione di un vaccino efficace contro il Sars-CoV-2».
Non è un caso, infatti, che per nessun Coronavirus si sia mai sviluppato e commercializzato un vaccino efficace. I meccanismi che hanno messo in discussione una buona riuscita non sono ancora del tutto noti. Come ha sottolineato Celegon, però, «sicuramente l'immunità umorale, cioè gli anticorpi prodotti in seguito a una prima infezione non sembrano avere un ruolo protettivo. Ed infatti i coronavirus sono noti per causare re-infezioni, indipendentemente dall'immunità acquisita».
Dunque, ancora una volta, la prevenzione rimane l'arma più efficace. Mascherine e distanziamento sociale, almeno fino a quando non vi saranno certezze sul «comportamento» del Coronavirus, anche in caso di re-infezioni.