Alzheimer, ecco una fotografia della proteina Tau: una svolta per i nuovi farmaci

Camilla Mantegazza | Web Editor e Social Media Manager a Pazienti.it

Ultimo aggiornamento – 10 Luglio, 2017

alzheimer: è stata fotografata la proteina Tau

La scienza arriva nel cuore di quella brutta malattia ladra di ricordi. È stata infatti immortalata con precisione pressoché assoluta la proteina Tau che, nel cervello dei malati di Alzheimer, invece di adempiere alle sue classiche funzioni, forma degli intricati grovigli che vanno a schiacciare le cellule nervose – con tutto ciò che questo comporta.

La ricerca è stata condotta da un team di scienziati del Laboratorio di biologia molecolare del Medical Research Council (Mrc) nel Regno Unito e dell’Indiana University School of Medicine. E i risultati sono stati sorprendenti: per la prima volta si è riusciti a descrivere la struttura dei filamenti e la regione della proteina che li forma.

Tutto ciò porta con sé un importante conseguenza. Da oggi, i farmacologici molecolari potranno sviluppare terapie in grado di prevenire la formazione dei filamenti e il loro accumulo in grovigli. Vediamo di cosa si tratta.

La proteina Tau: a cosa serve, quali sono le sue funzioni

La proteina Tau, in condizioni normali, ha il compito di stabilizzare i microtuboli, delle piccole strutture intracellulari fondamentali per il trasporto di molecole dal corpo del neurone fino alle sinapsi.

Esistono, però, alcune mutazioni della proteina Tau. Tra quelle note, ricordiamo l’iperfosforilazione che genera filamenti e, di conseguenza, un accumulo di grovigli che blocca la comunicazione tra le cellule celebrali, scatenando tutti quei processi neurodegenerativi tipici della nota patologia.

alzheimer: nuovi farmaci per il trattamento della malattia

Rappresentazione della proteina Tau

Il loro ruolo nello sviluppo di malattie come l’Alzheimer, sebbene sia noto da tempo, non era mai stato decifrato nei dettagli. Infatti, i filamenti di Tau sono assolutamente invisibili ad un microscopio light e, senza immagini capaci di mostrarne la struttura anatomica, risulta molto difficile poter studiare il loro “comportamento”.

I ricercatori hanno dunque deciso di estrarre queste fibre filamentose dal cervello di una donna di 74 anni che, in vita, aveva sofferto per oltre dieci anni di questa brutta malattia. I grovigli isolati sono stati dunque analizzati con una tecnologia d’avanguardia nota come Crio-Microscopia Elettronica, che permette di osservare i campioni di tessuto nel loro stato naturale, senza dover per forza aggiungere particolari tinture per evidenziare parti specifiche da poter studiare.

Nuove prospettive per i malati di Alzheimer

Il team di scienziati è stato in grado di scattare circa 2000 fotografie, utili per identificare la struttura centrale dei filamenti e la conformazione dei 73 aminoacidi che li costituiscono.

Ogni filamento è composto a sua volta da due filamenti appaiati, detti protofilamenti. Questi presentano una forma a “C”: la loro superficie esterna è ricca di addensamenti che respingono le molecole di acqua, impedendo di entrare nel filamento. Secondo gli studiosi, potrebbe essere questa la ragione per cui i filamenti resistono ai tentativi del nostro organismo di dissolverli.

Alle estremità dei protofilamenti, sono state inoltre osservate delle complesse strutture a elica, uniche nei malati di Alzheimer. Ciò implica, un passo avanti della diagnosi. Queste strutture, infatti, potranno essere “utilizzate” come biomarker per diagnosticare la malattia.

Se la diagnosi diviene più semplice, dei vantaggi si avranno anche nel trattamento. Conoscendo nei dettagli i meccanismo alla base dell’Alzheimer, infatti, sarà più facile identificare nuove strategie di cura e prevenzione per questa e altre malattie neurodegenerative.

Una scoperta che fa ben sperare le 600 mila persone in Italia che, secondo i dati Censis, sono colpite dall’Alzheimer.

Camilla Mantegazza | Web Editor e Social Media Manager a Pazienti.it
Scritto da Camilla Mantegazza | Web Editor e Social Media Manager a Pazienti.it

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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