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Epilessia: sì, ma di quale tipo?

Redazione

Ultimo aggiornamento – 14 Aprile, 2020

Epilessia: i Sintomi e la Diagnosi

 

A cura di Laura Tassi, Vice-Presidente Lega Italiana Contro l’Epilessia (LICE); Centro Chirurgia Epilessia “Claudio Munari”, Ospedale Niguarda, Milano.


L’epilessia, o meglio, le epilessie, vengono definite come le seconde malattie neurologiche al mondo per numero di casi.  Si tratta infatti di patologie che affliggono almeno una persona su 100, nei paesi industrializzati.

Si descrive una crisi epilettica come la comparsa transitoria di modificazioni del comportamento o dei sensi di un singolo individuo, accompagnati o meno alla perdita di coscienza, dovuti a un’anomala ed eccessiva attività elettrica dei neuroni cerebrali. Un singolo episodio non è sufficiente per la definizione di malattia cronica, sono necessarie almeno due crisi.

La prima necessità è quella di porre una diagnosi corretta e di non confondere l’epilessia con altre patologie (cardiovascolari, psichiatriche, etc.).

Una volta posta la diagnosi di epilessia, è necessario eseguire gli esami diagnostici necessari per poter distinguere all’interno delle molte forme, quella caratteristica di ogni singolo paziente.

Che esami fare per diagnosticare l’epilessia?

Sulla base di tale distinzione saranno diversi gli esami, la prognosi, la terapia necessaria, l’organizzazione dei controlli successivi. La diagnosi si basa soprattutto sulla clinica (descrizione dell’evento critico raccontato dal paziente e/o da eventuali testimoni) coadiuvata da indagini strumentali quali l’ElettroEncefaloGramma (EEG), le neuroimmagini (studi di Risonanza Magnetica cerebrale), esami genetici e di laboratorio, che possono consentire spesso di identificare la causa dell’epilessia.

Si distinguono epilessie con cause strutturali dovute a una lesione cerebrale (malformazioni della corteccia cerebrale, tumori, anomalie di arterie cerebrali, traumi cranici), epilessie genetiche (causate da una mutazione genetica), epilessie dovute a cause infettive, immuni o metaboliche.

Quando non è possibile risalire all’origine, le epilessie sono chiamate criptogenetiche, cioè a causa sconosciuta. Grossolanamente, possono essere distinte in epilessie focali (la scarica elettrica che genera le crisi interessa solo una parte del cervello) ed epilessie generalizzate (tutta la corteccia cerebrale è coinvolta contemporaneamente dalle crisi).

Ci sono i soggetti più colpiti?

Diverse sono poi evidentemente, le categorie di pazienti: non esiste un’età in cui l’epilessia non possa presentarsi e dobbiamo tenere conto di differenze essenziali tra neonati, bambini, adolescenti, donne e anziani, scegliendo con cura lo specialista che dovrà occuparsi di loro.

In generale purtroppo, la definizione della diagnosi presuppone, nella larga maggioranza dei casi, che il paziente sia portatore della malattia per tutta la vita. Rare sono le epilessie a evoluzione spontaneamente benigna e l’unica terapia che possa ridonare al paziente la libertà piena dalla malattia è la chirurgia, che però può essere attuata solo in alcune forme (le epilessie focali).

La diagnosi deve necessariamente essere precoce, senza latenze, all’inizio della malattia, accurata, con la corretta definizione del tipo di patologia e della sua definizione specifica, tenendo conto delle possibili diagnosi differenziali. Dovrà essere ovviamente adattata, per età e per genere e integrata, non ché confermata dai corretti esami diagnostici.

I farmaci contro le epilessie

Il paziente a cui viene comunicata la diagnosi chiederà se è possibile guarire: la risposta non è certo incoraggiante, la maggior parte delle epilessie non guarisce spontaneamente e richiede una terapia farmacologica per tutta la vita. I farmaci contro le epilessie a disposizione sono molti e vanno scelti correttamente sulla base delle caratteristiche dell’epilessia del paziente e sulle sue particolarità personali (genere, età, altre malattie concomitanti).

Nell’ambito della cura farmacologica di questa patologia la percentuale di pazienti che, nonostante la terapia farmacologica non è sensibile alle cure e diventa cioè farmacoresistente, è circa il 40%.

Una volta definita la diagnosi, la terapia farmacologica e/o chirurgica, quando si rivela necessario introdurla o utilizzarla, necessitano di tempi brevi e di scelte precise e motivate.

La terapia farmacologica o chirurgica o di altro tipo dovrà anch’essa essere rapida e precoce, per evitare il rischio del ripresentarsi di altre crisi. Dovrà essere accurata, identificando il farmaco corretto per quel tipo di epilessia: non tutte le molecole farmacologiche sono uguali. Evidentemente poi la scelta del farmaco deve essere adattata all’età e al genere del paziente.

Farmaci diversi danno effetti collaterali diversi, che devono essere noti a chi li prescrive, frequenti o rari e che vanno tenuti in considerazione al momento della scelta, soprattutto nella popolazione pediatrica; possono essere diversi e diversamente tollerati e si dovrà anche tener conto di eventuali altre malattie coesistenti e di altri farmaci che il paziente già assume.

Inoltre, la terapia andrà integrata con i corretti esami atti a mettere in luce gli effetti collaterali, sovradosaggi o mancata assunzione del farmaco, organizzando i tempi dei controlli successivi, valutando il risultato atteso.

Sia diagnosi che terapia dunque dovrebbero essere valutate dallo specialista epilettologo, cioè un medico che si occupi in maniera assidua e quasi esclusiva di epilessia. In realtà, tenendo conto del carattere accessuale e di possibile urgenza che l’epilessia può assumere, le diagnosi vengono poste dai pediatri e dai medici di famiglia o in Pronto Soccorso. Il ricorso allo specialista Epilettologo o ai Centri per l’epilessia è raro e solitamente lasciato all’organizzazione da parte del paziente stesso. Si calcola che meno del 10% dei pazienti con epilessia sia stato valutato o sia seguito presso un Centro specializzato.

La terapia farmacologica dovrebbe controllare completamente le crisi, permettendo quindi al paziente di recuperare tutte le autonomie della vita quotidiana e non dovrebbero indurre effetti collaterali.

I farmaci vanno assunti tutti i giorni (in genere 2-3 volte durante la giornata) e saranno poi necessari esami e visite di controllo, la cui tipologia e tempistica vengono stabiliti sulla base dell’evoluzione della malattia. Sempre, ma in particolare nella popolazione pediatrica, vanno tenuti presenti i possibili effetti negativi sullo sviluppo cognitivo.

Più di un terzo dei pazienti che iniziano una terapia antiepilettica si dimostrerà “farmacoresistente”: continuerà cioè ad avere crisi pur avendo provato almeno due farmaci specifici per il suo tipo di epilessia, tollerati e somministrati alla dose giusta e per un adeguato periodo di tempo, in monoterapia (un farmaco alla volta) o in associazione con altri farmaci.

Da valutare anche la possibilità di una farmacoresistenza “falsa”, dovuta cioè a diagnosi errata, a una scelta inadeguata del farmaco e/o delle sue dosi, ad assunzione non secondo le indicazioni mediche della terapia da parte del paziente.

Non necessariamente tale condizione è definitiva e irreversibile, perché il paziente, anche se raramente, potrà diventare responsivo ad altre associazioni farmacologiche o a farmaci di nuova introduzione in commercio (negli ultimi 15 anni sono stati introdotti sul mercato oltre 10 nuove molecole e la percentuale di pazienti controllati non supera il 4%).

Nell’ambito delle epilessie focali farmacoresistenti bisogna prendere in considerazione la possibilità di un intervento neurochirurgico: dopo uno studio adeguato, che può comprendere la registrazione con l’EEG (sia di superficie che all’interno del cranio) delle crisi e una Risonanza Magnetica mirata sulla regione di corteccia responsabile delle crisi, si discute con il paziente e i familiari dei rischi e delle probabilità di successo. I risultati sono ottimi in oltre il 70% dei casi, con rischi inferiori all’1%.

La regione di corteccia che è colpevole delle crisi non racchiude più in sé le funzioni che le erano state assegnate, che vengono invece svolte dalle regioni adiacenti. Se si raggiunge la guarigione, la terapia antiepilettica nella maggior parte dei casi potrà essere sospesa.

Purtroppo a fronte di diverse migliaia di pazienti che potrebbero beneficiare di questo intervento in Italia, nei diversi Centri di Chirurgia dell’epilessia si realizzano poco più di 300 interventi l’anno.

Nei pazienti che non hanno un’epilessia focale o per i quali viene controindicato l’intervento chirurgico, si possono utilizzare metodologie cosiddette palliative, cioè che possono migliorare la frequenza e l’intensità delle crisi, ma non guarire. Tra queste ricordiamo lo stimolatore del nervo vago, la dieta chetogena, la stimolazione cerebrale profonda. La diagnosi di epilessia è estremamente difficile da accettare: si tratta di una patologia cronica e, tranne in rari casi, non guarisce spontaneamente.

Come accettare la malattia

La caratteristica principale che la rende patologia devastante è l’insorgenza improvvisa e imprevedibile delle crisi (epilessia deriva da un verbo greco, èpilambanein, che significa essere colti di sorpresa), che possono portare il paziente a correre rischi poco accettabili di traumi importanti. Inoltre nella maggior parte dei casi, al di fuori delle crisi, esiste un completo benessere fisico.

Ancora più difficile quindi accettare tutte le limitazioni che vengono imposte: non rimanere da soli, non guidare, non spostarsi senza accompagnamento, fino ai casi più gravi in cui le crisi determinano la caduta a terra, con la necessità di un’assistenza continua nelle 24 ore. Imponente può quindi essere la ricaduta nella vita quotidiana, soprattutto nei casi farmacoresistenti.

Inoltre la poca conoscenza della malattia porta a possibili discriminazioni in ambiente scolastico nei bambini, mentre negli adulti sono importanti gli ostacoli a una normale integrazione sociale, per il radicato pregiudizio sull’epilessia.

L’epilessia quindi non è più la malattia di un singolo ma la patologia di una famiglia intera.

A tutti i pazienti con epilessia andrebbe offerta un’assistenza specialistica e un accesso in Centri specializzati, mentre le Società Scientifiche e dei pazienti devono lottare contro i pregiudizi, le mancate integrazioni, le difficoltà di accesso alle cure.

Qualsiasi sia l’età e la diagnosi sindromica, in primo luogo va tenuto conto della sicurezza e della protezione del paziente, un percorso di cura individualizzato e specifico per quella diagnosi sindromica e la possibilità di essere integrato, accolto e assistito in ambito scolastico lavorativo e sociale, senza dimenticare il ruolo centrale della famiglia, che nei casi più gravi tende a disgregarsi, ma deve restare invece luogo
di cura e accoglienza.

La terapia chirurgica e le terapie palliative quando la chirurgia non può essere intrapresa devono essere valorizzate e indicate al momento della diagnosi sindromica, non lasciando che un lungo tempo di malattia renda vano qualsiasi ulteriore ma tardivo tentativo terapeutico.

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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